Federer, Djokovic, Nadal: numeri a confronto di tre stagioni da '10 e lode'

TENNIS – di Federico Parodi

Il quinto titolo di maestro è stato per Novak Djokovic l’epilogo ideale di una stagione mostruosa. Un dominio assoluto, per certi versi imbarazzante, che ha riportato alla mente altre grandi dittature annuali del passato. Ma nel 2016 il campione serbo saprà riconfermarsi?

Partiamo innanzitutto dalle statistiche del 2015 del numero uno del mondo. Undici trofei alzati al cielo, 82 match vinti a fronte di sole 6 sconfitte, che certificano meglio di qualsiasi parola il monopolio serbo, su ogni terreno in cui è oggi possibile giocare a tennis: dal cemento australiano all’indoor, passando per la terra rossa, l’erba e il cemento americano. Un uomo solo al comando, mentre tutto il resto del gruppo, irrimediabilmente staccato, arranca, lo vede lontano, in classifica e non solo. Chissà se i suoi avversari diretti, presi dalla frustrazione di competere tra loro per il poco edificante titolo di migliore dei secondi, faranno pressioni sui vertici Atp affinché sperimentino nuove e improbabili superfici in cui testare il cannibale nativo di Belgrado. Siamo nel regno del fantasy ovviamente, anche perché, conoscendo Djokovic e la sua darwiniana capacità di adattamento, non avrebbe difficoltà nemmeno a giocare (e vincere) sul ghiaccio. 

Il confronto tra l’annata record di Nole e quelle dei suoi rivali storici, il 2006 di Federer (92 vittorie e 5 sconfitte con 12 titoli) e il 2013 di Nadal (75 vittorie e 7 sconfitte con 10 titoli), pone l’attenzione su alcuni dati significativi che vale la pena analizzare. Partiamo dai due finalisti delle ultime Atp Finals. Il 2015 del serbo, al pari del 2006 dello svizzero, vanta tre quarti di Slam; sono, però, i 6 Master 1000 (Indian Wells, Miami, Monte-Carlo, Roma, Shanghai e Parigi-Bercy), contro i 4 di Federer, a far pendere l’ago della bilancia dalla parte di Nole. Non solo. Nella stagione che si è appena conclusa il marziano belgradese ha giocato 16 tornei, raggiungendo in 15 occasioni la finale. Solo l’implacabile servizio di Ivo Karlovic, all’Open del Qatar d’inizio anno, ha osato eliminarlo prima della domenica, giorno designato per l’atto conclusivo. Eccezion fatta per la sconfitta indolore nel round robin delle Atp Finals, le altre quattro partite perse sono state le finali di Dubai, Roland Garros, Montreal e Cincinnati. Quest’ultimo è il dato che impressiona maggiormente e che avvalora la tesi che il 2015 del serbo sia il dominio qualitativamente superiore. Un Wawrinka in versione “Stanimal” gli ha negato il successo a Parigi, ma la supremazia di Djokovic è una certezza su tutte le superfici e latitudini. Mentre non si può dire lo stesso per Roger Federer, che nel 2006 aveva già il suo bel da fare per fronteggiare il Nadal pigliatutto sulla terra rossa. 

Non c’è storia, invece, se si prende come secondo termine di paragone il 2013 del maiorchino, la stagione più titolata della carriera del campione di Manacor: soltanto, si fa per dire, due Slam all’attivo (il solito Roland Garros e l’Open degli Stati Uniti), niente Master e, soprattutto, la macchia dell’uscita al primo turno a Wimbledon contro Steve Darcis. Dal punto di vista della qualità dei risultati probabilmente lo spagnolo ha fatto meglio nel 2008 (82 vittorie e 8 sconfitte con due titoli Slam e l’oro olimpico) e nel 2010 (71 vittorie e 10 sconfitte, ma con tre Slam). In ogni caso siamo molto lontani dalle vette raggiunte quest’anno dal serbo. Anche perché lo spagnolo, tra problemi fisici e cronica allergia alle superfici veloci, non ha mai dominato completamente sul cemento. Per non parlare del tappeto indoor, da sempre il suo tallone d’Achille.

Dopo un 2011 per larghi tratti incontenibile, alzi la mano chi avrebbe pensato, a quattro anni di distanza, che Djokovic potesse non solo ripetersi ma addirittura migliorarsi. Quello sembrava davvero essere il punto alfa della carriera della macchina da guerra serba. Invece Nole ha avuto il merito di compiere un ulteriore step, in primis in due aspetti: la mente e il servizio. Così il giocatore che esordiva quattro anni fa con un filotto di 43 vittorie consecutive, interrotto a Parigi in semifinale da uno dei migliori Federer di sempre, è oggi ancor più completo, sempre meno perfettibile. Ha tradotto la delusione per le cinque finali Slam perse nel biennio 2012-14 in una rabbia agonistica che ha pochi precedenti nella storia del tennis. È il miglior atleta del circuito. Costruisce i suoi successi su una programmazione meticolosa. Sa meglio di altri quando deve giocare e quando, invece, conviene riposare. Insomma, alla luce della carta d’identità dei suoi grandi rivali e della carenza di alternative fresche dalle retrovie, Djokovic sembra imbattibile, tanto che da più parti si inizia ad accostare al suo nome la parola magica Grande Slam.

Eppure, ipotizzare in chiave 2016 una stagione più dominante di quella appena conclusa è francamente troppo, anche per un campionissimo di tale cilindrata. Questione di statistica, materia che nello sport non va mai sottovalutata. Difficile, quasi impossibile, mantenere un livello di concentrazione e di condizione psicofisica così elevati per due annate consecutive. Nel 2007 Federer ha proseguito la sua egemonia, ma, pur aggiudicandosi sempre tre quarti di slam, con numeri decisamente più umani (68 vittorie e 9 sconfitte con 8 titoli). Il 2014 di Nadal, condizionato da vari problemi di natura fisica non è stato, invece, all’altezza della stagione precedente (48 vittorie e 11 sconfitte con soli 4 titoli in bacheca). E anche andando a rileggere i dati dello stesso serbo tra il 2011 e il 2012 si nota un quasi dimezzamento dei trofei vinti (10 a fronte di 6) e un raddoppiamento delle sconfitte (da 6 a 12). La sensazione, avvalorata dalle statistiche, è che la dittatura del serbo muterà dopo la pausa invernale in una monarchia a tinte maggiormente democratiche. Tradotto significa che Djokovic continuerà a vincere molto, restando saldamente al comando delle classifiche, ma si concederà anche qualche distrazione in più, di cui i Federer, i Wawrinka, i Murray e i Nadal dovranno essere bravi ad approfittare.

 

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