Com’è fatto il pilota perfetto? Tanti nomi, molte soluzioni, nessuna certezza. Naturale, dopotutto: l’essere umano è unico in quanto tale, così come i suoi gusti e preferenze. Impossibile mettere tutti d’accordo, nel pronunciare nome, idea, preferenza. Dunque, non resta che provare a formare una sorta di Frankenstein, un moderno Prometeo descritto dalla mefistofelica penna di Mary Shelley. Stavolta, però, nelle scomode vesti di un “driver”.
Attraverso “Driver’s Anatomy” (Absolutely Free editore), scritto da Luigi Ansaloni, i settant’anni di Formula Uno sono riletti attraverso quelle particolarità fisiche che hanno reso famosi i piloti. Un punto di vista anatomico su un mondo costruito nell’alta tecnologia motoristica, dunque del tutto nuovo, seppure non sconosciuto ai tanti appassionati che hanno saputo cogliere attraverso le singolari particolarità fisiche dei protagonisti e l’uso che essi ne fanno in gara, l’aspetto più umano del circuito più veloce e futuribile che vi sia.
Perché è grazie a quei corpi che questo sport è entrato nell’immaginario collettivo come sinonimo di grinta, coraggio, rischio e adrenalina. Corpi donati alla scienza della velocità. Corpi normali ma capaci di far eseguire cose che proprio normali non sono. Corpi attraverso i quali passa la gioia, il dolore, la vita, la morte e la gloria. Dentro quei corpi si nasconde la grandezza del pilota, come il “fegato” di Villeneuve, sinonimo di coraggio e follia, o il cuore di Alonso, caldo quanto lui ma a volte traditore. E poi gli occhi di Cervert, spenti per sempre in un pomeriggio americano, le spalle di Senna, abituate a calibrare la guida del suo bolide come a portare il peso di una nazione. Particolari curiosi come il ventre di Juan Manuel Fangio o le braccia di Nuvolari, i primi campionissimi. Prefazione di Fabio Tavelli, giornalista di Sky e presentatore di “Race Anatomy”, il programma che va in onda dopo i Gran Premi la domenica di gara.
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