Ci sarà anche Danielle Collins al via della prossima stagione tennistica. La statunitense, che concluderà il 2024 in top-10 dopo gli ottimi risultati della prima parte di stagione, prenderà parte con la maglia degli Stati Uniti alla United Cup che inaugurerà l’anno nuovo tra Sydney e Perth. La notizia è che la finalista dell’Australian Open […]
TENNIS – Dal nostro inviato a Singapore Diego Barbiani
“You don’t have to be big to be great”, ovvero “Non conta essere grandi per essere straordinari”. E’ la frase che ieri Dominika Cibulkova ha usato per descrivere la gioia e l’esplosione di emozioni complessive provate dopo il match point contro Svetlana Kuznetsova.
Alta appena un metro e sessanta, le avevano sconsigliato di intraprendere la carriera da tennista quando ad 8 anni fu portata dai suoi genitori al circolo tennis di Bratislava: “Gli altri ragazzi ed adulti del club mi dicevano di non provarci nemmeno, perché non ce l’avrei mai potuta fare a diventare una tennista, a fare di questo sport un lavoro con cui mantenermi, perché ero troppo piccola e non avevo le caratteristiche adatte”. Quasi vent’anni più tardi, è diventata la prima giocatrice slovacca a vincere un Master di fine anno in singolare (Janette Husarova ci riuscì in doppio nel 2003 con Elena Dementieva), nonché a superare Daniela Hantuchova come numero di titoli vinti in carriera (8 contro 7).
Questa sera ha vinto le WTA Finals giocando un tennis ultra aggressivo ma impeccabile, difendendosi e proponendo grandi soluzioni anche con un colpo ritenuto debole come il servizio, variando gli effetti dati alla palla e trovando una percentuale di prime dell’83%, risultando per lunghi tratti ingiocabile. Eppure all’inizio non era così, non era questo il suo gioco: “All’inizio non arrivavo bene sulla palla, forse è per quello che non andavo mai in spinta ma cercavo soprattutto di ributtare la palla al di là della rete. La mia aggressività è nata col tempo, inserendo passo dopo passo un po’ qualcosa che i vari allenatori mi insegnavano”.
Top-10 durante la carriera junior, ha impiegato diverso tempo per formarsi anche tra le pro. Non è mai uscita dalla Slovacchia, rimanendo fedele all’accademia di Tennis Empire dove nel 2006 conobbe il primo dei 3 amori tennistici della sua adolescenza: Sergiy Stakhovsky. I due rimasero insieme più di 2 anni, prima che le strade si separarono.
Nel 2008, a diciannove anni, arrivarono anche i primi risultati di rilievo a livello WTA. A Doha, ad esempio, fece i quarti di finale battendo in successione Lucie Safarova, Patty Schnyder (top-10) e Venus Williams cedendo solo in 3 set combattuti a Agnieszka Radwanska, personaggio che ricorrerà più volte negli anni. Ad aprile arrivò la prima finale in carriera, nel torneo (ora defunto) di Amelié Island. Perse da Maria Sharapova, ma pochi mesi dopo ripetè il bel risultato in Nord America con la finale nel Premier 5 di Montreal.
Per arrivare al primo trofeo ci volle una finale rocambolesca contro Kaia Kanepi a Mosca, nel 2011. Era il quarto tentativo, da lì in poi avrebbe vinto almeno un trofeo a stagione fino al 2014, l’anno più importante della sua carriera prima di ora.
Cambiò tanti allenatori prima di passare a quello attuale, Matej Liptak. Lo slovacco, capitano attuale della squadra di Fed Cup, è colui che ha definitivamente trasformato Cibulkova. Per diverse ragioni non riusciva mai a raccogliere quanto seminava, il suo gioco offensivo era ancora molto scriteriato e grezzo, aveva bisogno di una crescita totale della giocatrice per diventare efficace e limitarne i cali nell’arco del singolo incontro. Fino al 2012, nonostante qualche bell’acuto come la semifinale al Roland Garros (2009), i quarti allo US Open nel 2010 ed a Wimbledon nel 2011, Dominika si perdeva ancora troppo spesso. Una giocatrice di questa statura e che decide di essere aggressiva in campo deve anche saper gestire i tanti momenti di difficoltà del match, non calare di intensità o per prima cosa rischia di mettere in palla l’avversaria, ma soprattutto rischia di perdere tutto il controllo del proprio gioco.
Era una giocatrice da “mina vagante”, ma difficilmente poteva ripetere rendimenti di altissimo livello così a lungo durante il match o semplicemente trasportare una bella prestazione più avanti nel corso del torneo. Questo è il motivo per cui contro Radwanska, non a caso, perse 5 dei primi 6 precedenti giocati, guarda caso tutti dal 2008 al 2013.
Agnieszka è poi un avversario che le ricorda tanti momenti significativi, alcuni anche sportivamente drammatici. A Sydney perse 6-0 6-0 in finale avendo pure le chance di vincere diverse volte i game. Sette mesi dopo, a Stanford, la prima vittoria sulla polacca, tra l’altro in finale. Sei mesi dopo, il 6-1 6-2 che le regala la prima storica finale Slam. Non ci sono solo questi, ma sono forse i momenti più significativi per dimostrare quanto stesse crescendo di testa e di gioco. Non a caso, dei successivi 7 incontri ha vinto ben 5 volte, di cui 4 in match tramutati in battaglie altamente spettacolari, ultimo dei quali il 9-7 a Wimbledon che la riportò ai quarti lo scorso luglio in un periodo che la vide trionfare per la prima volta anche sull’erba (ad Eastbourne, la settimana prima).
Questo 2016 ci ha messo un po’ a decollare, un po’ come tutta la carriera, ma da Acapulco a fine febbraio sono arrivate 7 finali, mai così tante in una sola stagione, e 4 titoli, mai così tanti in una sola stagione. Da lunedì prossimo sarà al n.5 del mondo, lei che dopo la sconfitta da Kristina Mladenovic in Australia era precipitata al n.66 e si frustrava perché non riusciva a risalire ed a sentirsi una giocatrice vera. Ad Acapulco la prima finale dopo quasi 2 anni, persa 7-6 al terzo da Sloane Stephens dopo una battaglia tremenda di oltre 3 ore, poi le 2 sconfitte tra Indian Wells e Miami piuttosto pesanti, perché entrambe al secondo turno e contro giocatrici di alto livello dove era stata vicinissima al trionfo. Contro Radwanska, ancora lei, fu 5-2 al terzo e match point a favore. Contro Garbine Muguruza invece fu 5-3 e 40-40. Le perderà entrambe 7-5, rimanendo incagliata in una palude dove lei stessa sentiva di non appartenere. C’è voluto del tempo, ma da Katowice in poi è stata la giocatrice con più successi nel circuito femminile fino a Wimbledon.
Una settimana dopo il ritorno in top-10 dopo un anno e mezzo, poi la definitiva impennata con il trofeo di Wuhan, dove esaltò il suo carattere da guerriera vincendo 3 partite nell’arco di 24 ore. In questi mesi, in queste battaglie, è nata la nuova Cibulkova. La Cibulkova attuale, quella che esce dal campo solo nel momento in cui ha dato tutto quello che poteva, lottando, sudando ed attaccando.
Era troppo piccola per giocare a tennis, non ce l’avrebbe mai fatta secondo tantissimi. Ora invece è lì in mezzo al campo di Singapore, dove mettono piede solo le migliori 8 giocatrici al mondo della stagione, ad accarezzare il trofeo più importante della propria carriera. Fino ad ora.