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02 Set 2015 13:01 - US Open
Gli ultimi US Open di Fish e quel peso di cui parlare
di Rossana Capobianco
TENNIS – US OPEN – Traduzione a cura Di ROSSANA CAPOBIANCO – Mardy Fish, all’ultimo torneo della sua carriera, scrive a tutti raccontando la sua storia in maniera schietta e delicata, parlando della sua malattia mentale, degli attacchi di panico e di una storia di vita, la sua. E chiunque può immedesimarsi perché nessuno di noi è esente da debolezze.
Non giocare.
Manca qualche ora dall’incontro più importante della mia carriera: ottavi di finale agli US Open, Labor Day, nel giorno del compleanno di mio padre… contro Roger Federer. Manca qualche ora dal giocare contro il migliore di sempre, con le migliori chance di sempre nel torneo che più amo al mondo. Manca qualche ora dal giocare l’incontro per il quale hai sudato e ti sei sacrificato per un’intera carriera.
E non ce la faccio. Letteralmente, non ce la faccio. E’ pomeriggio presto e l’autista mi sta portando a Flushing. Sto avendo un attacco di panico. Veramente, ne sto avendo più di uno, diciamo uno ogni quindici minuti, ma presto inizieranno ad arrivare ogni dieci. Sto dando di matto.
Mia moglie inizia a chiedermi: “Cosa possiamo fare? Cosa facciamo perché migliori?”. E le dico la verità: “L’unica cosa che mi fa sentire meglio in questo momento è l’idea di non giocare questa partita”.
Lei esita, mi guarda bene per un secondo e capisce che sono serio, molto serio. Non sto pensando, non sto lamentandomi, sto solo cercando di sopravvivere. E allora mi dice tranquillamente e chiaramente: “Be’, allora non dovresti giocare, non devi giocare per forza. Semplicemente, non giocare”.
I miei problemi con i disturbi d’ansia sono iniziati nel 2012, durante quello che avrebbe dovuto essere il punto più alto della mia carriera. Mi trovavo alla fine di un lungo percorso, durato qualche anno, nel quale molte cose sono arrivate tutte insieme per me.
Nel 2009 ho sperimentato questa sorta di illuminazione. Avevo 27 anni, una carriera niente male, avevo vinto una medaglia d’argento alle Olimpiadi del 2004, qualche buon risultato in un paio di tornei dello Slam, avevo visto il mondo… ma non avevo niente di davvero sostanzioso in mano.
Mi ero appena sposato e le mie prospettive stavano cambiando, crescendo. Credo di aver realizzato per la prima volta che “niente male” riferito alla mia carriera non era abbastanza per me. Che non finivo in quel modo, che volevo fare qualcosa di importante nello sport e che se davvero era quella la mia volontà, era ora o mai più.
Ho cambiato dieta, stile di vita, praticamente tutto. Sono dimagrito molto e non sapevo questo come sarebbe stato ma sapevo che avrei dovuto scoprirlo.
Nel 2010 iniziarono ad arrivare i primi risultati: ho battuto Murray a Indian Wells senza perdere un set – un risultato che prima era davvero insperato. Vinto Atlanta in mezzo ad un’umidità alla quale ho resistito, perso una finale a Cincinnati contro Federer al terzo che avrei anche potuto vincere, battuto Roddick che mi aveva battuto un po’ di volte. Il 2011 è stato anche meglio: ho raggiunto i miei migliori risultati al Roland Garros e a Wimbledon, ho superato uno dei miei migliori amici (Andy Roddick) come primo americano nel ranking, ho raggiunto la top ten. A inizio 2012 ero numero 8 del mondo. Tutto quello per cui avevo lavorato era lì. Non ero solo un altro nel tour, avevo raggiunto l’elite.
Ed è qui che sono iniziati gli attacchi di panico. E’ davvero difficile, quando si tratta di ansia, cercare di capire la causa-effetto, ma un paio di cose mi vengono in mente. La prima è che le aspettative erano cambiate, sia per quanto riguardava me stesso che per gli altri. Sicuramente questo non ha aiutato, non è esattamente una cosa salutare. La mia insoddisfazione che mi aveva così aiutato quando i giocatori davanti a me erano 20, era diventata più stressante e distruttiva adesso che il numero si era ridotto a 7. L’idea di non essere abbastanza era forte dentro di me e mi ha portato a vette che non avevo mai visto prima. Ma fermare quest’idea, questa cosa dentro di me era altrettanto difficile. Ero ossessionato dall’idea di fare meglio, sempre meglio. Il rovescio della medaglia.
E la seconda cosa riguarda naturalmente l’aritmia cardiaca diagnosticatami. Ne ero terrorizzato. C’è voluto un bel po’ affinché la cosa si normalizzasse.
Ma quando sono tornato a giocare, quell’estate a Wimbledon, nuovi oscuri pensieri si sono impossessati di me. Ho iniziato ad avere paura di cose che potevano accadere, anche se continuavano a non accadere. Pensieri che sicuramente la paura dovuta all’aritmia aveva contribuito ad alimentare. Non riuscivo a dormire da solo. Doveva sempre esserci mia moglie, qualcuno. Prima amavo essere per conto mio, avere i miei spazi, le mie cose. Amavo viaggiare da solo, pensare e rilassarmi durante i voli transoceanici, ma adesso non erano più sinonimo di pace. Non potevo più stare da solo, punto.
Ironicamente, questi problemi non si presentavano in campo: continuavo ad avere ottimi risultati. Fuori, però, andava sempre peggio: continuavano ad aumentare fino a raggiungere i 4, 5 attacchi di panico durante un’ora. In hotel mi mettevo a cercare su internet riguardo alla salute mentali, i problemi e i disturbi d’ansia, ma non ne sapevo molto. Ero solo grato non si verificassero in campo. E poi è successo anche in campo.
Era la tarda estate del 2012, dovevo giocare un match serale contro Gilles Simon, che stava più in alto di me nel ranking ma ero fiducioso sulle mie chances.
Era una bellissima occasione: match serale agli US Open e tu sei assoluto protagonista, americano, preferito dal pubblico. Non era la partita di qualcun altro, era la tua partita. Bellissimo ma anche stressante. La partita è stata come le montagne russe, molto emotiva: pugnetti, racchette scagliate a terra e ansia. Ero davvero preda dell’ansia. Ricordo benissimo cos’è successo, il mio primo vero attacco di panico in campo: avanti due set a uno e 3-2 al quarto. Con la coda dell’occhio vedo l’orologio che segna l’una e quindici della notte. E per qualche ragione, è bastato. E’ stato il mio “grilletto”.
Nella mia mente un’oscura spirale: “O mio Dio, è tardissimo, non abbiamo ancora finito, sarà un match lunghissimo, poi dovrò fare la conferenza stampa, i massaggi, quando finirò? Sarò stanchissimo, il mio corpo ne risentirà”, e così via. Non ricordo nulla di tennistico di quella sera. Zero. Neanche di come ho fatto a vincere.
Dal momento in cui era successo, sapevo che sarebbe accaduto ancora. E in quell’auto verso Flushing Meadows prima della partita contro Federer questi pensieri mi hanno tormentato e gli attacchi di panico continuavano a torturarmi. E mia moglie che continuava a dirmi “Non devi giocare, non giocare”.
E stavo ascoltando… ma in realtà non lo stavo facendo. Puoi immaginare? Puoi immaginare se non gioco questa partita cosa penserò di me?
Poi, finalmente, l’ho ascoltata davvero. Non giocare, non devi giocare per forza. Oddio, è vero. Non devo farlo, non devo andare lì fuori davanti a ventimila persone per forza per giocare contro Roger.
Non ho giocato. Prima contro Roger, poi contro nessuno.
Tre anni dopo, gioco di nuovo agli US Open. E sebbene creda di potere giocare ancora ad alto livello, sarà il mio ultimo torneo, non ci sarà più tennis per me. Non è un film sullo sport questo, non ci sarà una fine epocale, felice, nessuna immagine in lontananza con me che vado via con il trofeo. Non vincerò il torneo. E mi sta bene, perché non voglio che questa sia una storia di sport nella quale perdo nell’atto secondo e vinco nel terzo.
E’ una storia di vita. E’ una storia che spiega come una malattia mentale mi abbia portato via il mio lavoro e di come, tre anni dopo, me lo sia ripreso.
E’ una storia che parla di istruzione e di dialogo, fondamentali, insieme all’attitudine e alle cure, pe
rché la malattia se ne vada.
Ne soffrono dieci milioni di americani. E l’ho scritta per aiutare.
Voglio essere una storia andata bene, e ritirarmi secondo i miei termini, la mia volontà, nel torneo che più amo al mondo credo che ne faccia una storia vincente. Parlarne aiuta. Sempre di più: parlarne e parlarne e non avere paura di mostrare le proprie debolezze. La debolezza non è qualcosa per cui vergognarsi, ed è per questo che la sto mostrando, ne sto parlando.
La debolezza va bene, sono qui per dire alla gente che è una cosa normale e che la forza arriva sotto molteplici forme. Parlare e curarti della tua malattia è forza.
Quello che accadrà? Non ne ho idea. Ho 33 anni adesso e so che non farò mai bene qualcosa come giocare a tennis. Ma va bene. Ancora oggi combatto con l’ansia, ancora oggi ci sono giorni peggiori e alcuni giorni in cui mi guardo indietro e mi dico di non averci pensato per un po’. Queste sono vittorie per me.
Ma non ci sono vittorie per le malattie mentali. Non ci sono quarti o semifinali, e non concluderò con una metafora sportiva, perché nello sport c’è sempre un risultato. Nella vita no, la vita semplicemente va avanti. La mia, spero, sta per cominciare.
Articolo tradotto da http://www.theplayerstribune.com/mardy-fish-us-open/