Quale forma ha l’acqua? In verità l’acqua prende la forma che le viene data, perché si sostiene che non ne abbia davvero una tutta sua. Proprio come un liquido, incapace di acquisire una sola forma, il tennis di Jannik Sinner fluisce, si adegua a ogni foggia o situazione. Scorre inesorabile ignorando gli ostacoli e procede […]
07 Gen 2015 12:00 - WTA
Krunic senza freni: «Tra le donne manca il dialogo. Quanto è difficile vivere in Serbia…»
di Diego Barbiani
TENNIS – Di Diego Barbiani
Quando si mise in luce per la prima volta qualche mese fa a New York, Aleksandra Krunic colpì subito per il fatto di avere una buona capacità di linguaggio e di essere piuttosto diretta. Ventidue anni a marzo, la vittoria rocambolesca di oggi contro Anna Schmiedlova a Shenzhen (3-6 7-6 6-1 annullando sei match point) l’ha proiettata nei quarti di finale dove sfiderà Simona Halep.
Durante lo US Open dell’anno scorso più volte fece delle riflessioni personali in conferenza stampa calcolando ogni parola per descrivere quel torneo da sogno. «Credo che sto imparando ad amarmi un po’ di più» disse, oppure «spesso mi capita di parlare con altre tenniste di tattica, loro mi guardano ed esclamano “come è possibile tu sia appena 150 del mondo (ora è 84, ndr)?. Questo è perché non ho mai usato per me questi consigli, in campo è come se avessi 10 anni».
La giovane serba ha rilasciato un’intervista al sito B92 dove ha parlato a tutto tondo di quella splendida cavalcata fino agli ottavi, dei suoi obiettivi per il 2015, del ruolo dell’allenatore, delle relazioni tra le giocatrici provando anche a dare una sua interpretazione su un argomento delicato come la psiche di una tennista in campo.
«New York è la città che ha cambiato la mia vita» ha esordito, «eppure non c’erano segnali per un buon risultato: ho partecipato a due tornei sulla terra (Olomuc e Sobota, ndr) a Luglio dove i risultati non erano stati positivi e poi null’altro. Volevo rimanere in Serbia, era difficile per me pensare di andare negli Stati Uniti, non avevo neppure un allenatore fisso. Alla fine però scelsi di lavorare con Branislav Jeremovic perché lo conoscevo da tanto tempo, ed ho lavorato con lui quando mi allenavo con Biljana Veselinovic. Il fatto è che non volevo andare a New York con qualcuno che non conoscevo, è per un fattore di fiducia. Poi lì qualcosa è scattato…». Cosa? «Ho provato ad essere più tollerante con me stessa nonostante io sia una perfezionista e quando sbaglio ho delle espressioni in volto piuttosto seccate come a dire “come è possibile che io abbia sbagliato?”».
Tra altre sue dichiarazioni rilasciate dopo le US Open, fece sorridere quella che disse a proposito di quale fosse stato il turno più difficile: «Il primo (contro Piter, ndr). La conosco molto bene, siamo ottime amiche. Per me era difficilissimo perché sapevo che sarebbe stata una partita aperta a diversi significati e variabili. Nei match seguenti contro Keys e Kvitova invece è stato diverso, non avevo nulla da perdere e questo mi ha scaricata tanti pesi dalle spalle».
Poi è arrivato il match contro Azarenka. «L’esperienza in quel match è stata determinante. Penso che se avessi vinto non so come avrei potuto affrontare il turno successivo. Un quarto di finale Slam avrebbe capovolto la mia vita. Avrei dovuto essere forse un po’ più matura. Ero avanti un set e 3-2, pensai “Wow! Ho l’occasione di approdare in un quarto di finale Slam!”. Ma chi me l’ha fatto fare! Probabilmente fu quello a rovinare il mio match, ma in uno stadio come l’Artur Ashe, con quel pubblico e contro una giocatrice come Azarenka purtroppo questi pensieri sono difficili da contenere».
Quel giorno lo stadio era tutto per lei e contro c’era una bielorussa piuttosto malmessa fisicamente. Poco prima, invece, c’era di fronte una Kvitova reduce dal trionfo a Wimbledon. «Sapere di essere avanti e di comandare la partita contro di lei fu una sensazione inquietante, ma allo stesso modo mi faceva sentire carica. Non dovevo pensare al risultato, al fatto che ci fosse Kvitova dall’altro lato del campo ed io stessi guidando il match, altrimenti tutto sarebbe stato compromesso. Al termine passò del tempo prima che capissi cosa mi stesse succedendo, controllai il tabellone in sala stampa per conoscere il risultato finale. Ricevetti oltre 500 messaggi sul cellulare, avevo What’sApp intasato e nei gruppi in cui sono inserita con i miei amici leggevo i loro incitamenti punto dopo punto».
Quel match la aiutò soprattutto a scoprire una nuova parte di sé. «Non ero abituata a soffrire, a lottare. Ho avuto uno sponsor da sempre, quindi non avevo grandi problemi di soldi. Però la mia crescita era lenta e con il tempo ho capito cosa vuol dire prendere soldi da qualcuno, specialmente se e è anche un grande amico di mio padre. E’ una questione di moralità e responsabilità. E’ stato difficile perché mi mettevo addosso grande pressione, gliene ho parlato e lui mi ha aiutato tanto».
Da quel torneo forse lei non sarà cambiata, ma le aspettative del pubblico sì. Un conto è fare un exploit, un altro è trovare una propria dimensione in un livello più alto rispetto a quello cui era abituata: «Questa è la vera differenza tra una giocatrice o un giocatore di primo livello e quelli più in basso. Dovrò essere più costante nel mio gioco. Agli US Open ho giocato il più bel tennis della mia vita, ma non accadrà ogni settimana. Il mio obiettivo per quest anno è di aumentare il livello base del mio gioco per abituarlo a ritmi che possano permettermi di mantenermi in una buona classifica. Per questo dovrò avere un atteggiamento positivo in ogni circostanza. Inoltre mi piacerebbe entrare tra le prime 50 del mondo, essere libera da infortuni e poter entrare direttamente nei tabelloni dei quattro Slam. Infine voglio a tutti i costi aiutare la mia nazionale ad uscire dalle sabbie mobili in cui è finita: eravamo in finale due anni fa, ora siamo scesi in serie C». Per questo avrà bisogno di un allenatore di cui si fida ciecamente. Jeremovic può essere l’uomo giusto? «Ci conosciamo da tanto, mi capisce meglio lui di tanti altri. L’allenatore deve essere per prima cosa un ottimo psicologo soprattutto nel lavoro con le donne: ogni giorno è diverso dall’altro e bisogna che sappia adattarsi al momento, non imporre il proprio lavoro incurante della persona che ha di fronte. C’è bisogno di comunicazione, altrimenti è tutto inutile. Inoltre ogni allenatore ha la propria idea di gioco, ma deve capire che non può modellare un giocatore a seconda di quell’idea ma deve sapere adattare l’idea al giocatore. Infine, un allenatore è con te praticamente ventiquattro ore al giorno, è impossibile che non entri nella tua vita come persona importante. Ok, vengono pagati, ma se si riesce a trovare un giusto equilibrio l’unione che si crea può essere una cosa da cui trarre grande vantaggio».
Se c’è qualcosa però di davvero complicato nel circuito femminile è il confronto con l’altra giocatrice, aprirsi ed instaurare un dialogo. «Capita spesso di trovare tenniste che neanche ti salutano, se tu chiedi loro dove si allenano queste ti guardano quasi preoccupate e sembrano chiedersi cosa realmente tu voglia da loro e perché. Ognuna ha una sorta di meccanismo di difesa. Tra i maschi questo non succede, loro sono più rispettosi dell’altro, spesso si salutano o almeno si stringono la mano». Tornando allo US Open ha rivelato un aneddoto: «Dopo la partita contro Kvitova sono rientrata nello spogliatoio e l’ho vista seduta mentre piangeva, le voglio davvero tanto bene e volevo abbracciarla forte per consolarla. Lei è una ragazza normalissima, non ha bisogno di borse di Luis Vitton per mostrarsi. Ho grande rispetto per chi fa il proprio lavoro senza darsi troppe arie. Anche Radwanska è sempre estremamente rilassata, così come Jankovic che rimane identica in ogni momento».
La vita di un tennista può portare un carico di stress non indifferente. «Non saprei neanche più quale sia la mia vera casa: dovrebbe essere a Belgrado, nel mio letto, invece non è così. Ormai la mia casa è l’aeroporto, dove passo la maggior parte del tempo. Ma fa parte del gioco, sono abbastanza abituata». Anzi, a proposito del suo paese natale rivela: «Sono nata in Serbia, ma vivere a Mosca o i
n altre città non mi ha dato la possibilità di acquisire il sentimento di “noi siamo i migliori”che molti hanno. Sono contenta di allenarmi qui ogni tanto, ma in generale l’atmosfera è pesante e mi uccide, provo una grande depressione». Poi specifica: «Ho passato la off-season ad Amsterdam e lì nonostante ci sia un costo alto della vita so che potrò contare su un futuro solido anche da qui a vent’anni. O Melbourne, per esempio. Mi piacerebbe vivere lì se non fosse per la lontananza. E’ una città aperta dove tutti sono cordiali e privi di sterotipi. Da noi non è così, da noi non sai quello che può accadere domani, da noi se qualcuno ha uno strano taglio di capelli la gente è subito pronta a parlar male. Lì invece è tutto più libero e senza costrizioni».
Per quello che riguarda il suo rituale (il segno della croce ortodosso al termine di ogni match) chiarisce di non averlo preso come un gesto meccanico e privo di valore. «Credo inoltre nel destino: per tutti noi c’è un fine già tracciato da qualcuno».
Nell’era degli smartphone e dei social network, Aleksandra rappresenta una mosca bianca: «Ad un certo punto ho cancellato tutte le applicazioni che avevo. “Basta!”non ce la facevo più. Ogni due secondi suonava il telefono, poi ci sono problemi se rispondo ad uno ed all’altro no. Ho firmato un contratto con Octagon, se io dessi in mano a loro il mio sito internet verrebbe fuori che io non avrei voglia di scrivere tre frasi e delego tutto ad un’agenzia. Questo è stupido. Io non sono la persona che scrive “Ehi sono ad Amsterdam!” oppure “Ehi! Sono in giro con mia amica!”, però oggi c’è gente che vuole costantemente essere aggiornata su questo. Oggi tutti sono costantemente collegati al cellulare, la prima domanda che sento entrando nella player lounge di un qualunque torneo è “mi daresti la password del Wi-Fi?”. No, assolutamente, è triste vedere tutti così incollati, incuranti di quante cose accadono attorno a loro».
Infine, rivela qualcosa a proposito delle sue passioni: «Adoro gli animali e mi piace guardare i documentari di mille generi: dalla preparazione dal comunismo, alla seconda guerra mondiale, vorrei vedere ora quello dedicato al “Red Light District” di Amsterdam. Quando ero lì ero piuttosto interessata alla storia di quelle ragazze: molte di loro sono forzate a fare quello che fanno. Una mia amica mi ha rivelato che molte di loro sono convinte con l’inganno da persone che promettono un lavoro nel mondo della moda. Era disgustoso vederle, non perché erano mezze nude, ma perché dovevano prostituirsi “coperte” da una finestra di vetro. Era terribile».