Di STEFANO SEMERARO. Quando Andre Agassi entra a Palazzo Parigi i suoi famosi occhi prensili, quelli che campeggiano sulla copertina di “Open” e in campo ipnotizzavano palline e avversari, sono appena offuscati dal jet-lag. Las Vegas-New York-Milano per una settimana di incontri fitti, come quando a Wimbledon sfidava il mondo a chi accelerava più in fretta.
Martedì il pranzo con Longines, suo sponsor dal 2007, ieri l’intervento al World Trade Forum, domenica l’intervista con Fabio Fazio a “Che tempo che fa”. Sfoggia il suo carisma morbido, l’ex-ragazzino maledetto, lo schiavo del tennis trasformatosi in maestro zen, e persino Carlo Cracco, terribile masterchef, sembra in soggezione. «Oh, cucinare mi piace molto», spiega Andre. «La mia specialità è la carne, anche se una cotoletta come questa è troppo complicata per le mie capacità. Comunque cerco di farlo bene, curando i dettagli».
Una regola che ha applicato anche nella stesura della sua geniale autobiografia, da tre anni in testa alle classifiche di mezzo mondo. «Non l’ho scritta per fare soldi – racconta – Mi aspettavo che sarebbe piaciuta, perché ci ho messo tutto me stesso, soffrendo moltissimo, ma non che avrebbe avuto un simile successo. E’ stata tradotta in 16 lingue, e ogni Paese ha una parte del libro che ama di più. In India sono catturati dal rapporto padre figlio, in Italia dalla sincerità di certi passaggi. Quando uscì se ne era parlato in maniera molto negativa, credo che alla fine la gente abbia capito. Sapevo che l’avrebbero letta i miei ex colleghi, ma non così tante persone fuori dal tennis. Adesso l’hanno scoperta su internet anche i miei due figli, Jaden Gil, che va pazzo per il baseball, e Jaz Elle, che adora ballare. Ne parliamo insieme, e con molta educazione loro evitano di farmi domande sulle parti più scabrose». Quelle che riguardano la droga, i disastri sentimentali, il rapporto feroce con il padre-padrone Mike. Tutti capitoli che hanno ingolosito Hollywood. «Sia Steven Spielberg sia Jerry Bruckheimer, il produttore della serie “ I Pirati dei Caraibi” volevano trarne un film. Ne abbiamo discusso per settimane, poi non se ne è fatto nulla. Avevo delle perplessità su come sarebbe stato reso il tennis, perché è quello il problema dei film sportivi: sono poco credibili. Bruckheimer mi aveva chiesto due settimane per mostrarmi come al computer riuscivano a mettere il volto di un attore sul mio corpo, e il risultato era fantastico, ero io che mi muovevo con la faccia di un altro. Spielberg mi aveva promesso che il tennis si sarebbe visto poco, una soluzione intelligente. Alla fine però il problema è che non avrei avuto il controllo che volevo. Chi investe milioni di dollari pretende di avere l’ultima parola e io non sopporterei di vedere me o mio padre dipinti sullo schermo nella maniera sbagliata. Sono già stato intrappolato una volta nella mia vita, non voglio che succeda ancora. Se Colin Farrell potrebbe essere un Agassi credibile? Be’, sempre meglio di Danny De Vito…».
Con il tennis, che in “Open” ha scritto di aver odiato, oggi Andre ha un rapporto sereno. «Ai tornei vado di rado: sai, c’è tanta gente che ho voglia di incontrare ma anche tanta che preferisco evitare. Mi piace guardarlo in tv, finalmente posso amarlo perché non è più un lavoro. Federer è arte in movimento, però credo che non vincerà più, Nadal il mio preferito. Se gioco lo faccio con gli amici, usando la mano sinistra o la racchettina-padella di mia figlia. Il pediatra di Jaz, che serve a 160 all’ora, era convinto di giocarsela. Ma conosco così bene il tennis che mi è bastato sentirlo parlare per capire come batterlo: non è riuscito a farmi neanche un ace».
Dal 1994 Agassi ha raccolto oltre 50 milioni di dollari attraverso la sua fondazione che si impegna a dare un’educazione ai figli più sfortunati delle periferie, missione che condivide con la moglie Steffi Graf, altra icona del tennis uscita da un rapporto non facile con il padre. «Perché lo faccio? Perché per il futuro abbiamo due possibilità, costruire scuole oppure prigioni: secondo te cosa è meglio?». Di trasformarsi in allenatore, come Ivan Lendl, l’ex-numero 1 del mondo non ne ha voglia («uff, ci vuole un sacco di tempo, l’unico che potrei consigliare è John Isner») e nemmeno il ruolo di capitano di Coppa Davis lo attira («c’è troppa politica nello sport, poi anche lì non mi darebbero mai il pieno controllo»). L’Atp, il sindacato dei tennisti lo vorrebbe a capo del tennis ma lui preferisce vivere e sorridere a Las Vegas. «E’ un gran posto, Vegas, lì sembra che tutti conoscano tutti. E poi è molto rilassato. Piace persino a mia suocera: prende la decappottabile, va a sedersi in un ristorante, si fuma una sigaretta. Noi viviamo in una casa vicino ad un campo da golf. La sera, quando non c’è più nessuno in giro, spesso andiamo vicino al fairway con Steffi e i bimbi. Io faccio un barbecue, e loro si divertono un sacco». Di scrivere un Open 2.0 per ora non se ne parla: «ehi, ho una vita sola, anche se è vero che sembrano almeno due», dice fissandoti con le pupille tornate quelle di uno sciamano. «Poi non è facile. L’autobiografia di Lance Armstrong non mi è piaciuta, è terribile come Lance abbia rovinato la vita a tanta gente solo per egoismo. E anche il libro di Connors è brutto: Jimmy non ha avuto il coraggio di guardarsi dentro». Per quello, servono occhi speciali.
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