Non è il primo, non sarà l’ultimo. Dominic Thiem ha delicatamente poggiato la racchetta su un curioso supporto allestito nella Wiener Stadthalle e con il sorriso triste e gentile scoperto a Rotterdam dieci anni fa si è avviato per salutare gli spettatori, commossi il giusto come si conviene agli austriaci. A Rotterdam, una qualunque sera di febbraio, nessuno pensò che fosse solo la famosa indolenza di Andy Murray a far risaltare quel meraviglioso rovescio del ventunenne di Wiener Neustadt, un posto così vicino all’Ungheria da meritarsene il nome in lingua – Bécsújhely, se riuscite a pronunciarlo – e brame dei vicini, non troppo ben disposti perché è vero che il “vicinato è parentela” ma dei parenti non è mai il caso di fidarsi. Degli ungheresi Dominic ha preso quei tratti da principe antico, viaggiatore dell’Orient Express, sempre malinconico, come lo sembrano sempre quelli così gentili da sembrare, appunto, degli aristocratici attraversati da passioni tristi. Eppure il suo tennis è stato esplosivo, in decisa controtendenza con l’eleganza dei movimenti, anche se sembrava ci stesse una vita per aprire, passate il gergo, quel rovescio che finalmente partiva veloce e bellissimo. Nell’epoca dei vincenti Thiem è stato un perdente, lasciate perdere lo slam, che del resto aveva provato a perdere, o la meravigliosa finale contro Federer, chi altri in fondo?, a Indian Wells. Dominic è stato più reale nelle due finali perse contro Nadal al Roland Garros, e ancora di più a Melbourne, contro Djokovic che pareva rassegnato – anche se ci sono cascati in tanto con quel serbo – anche se forse niente eguaglia lo smash tirato fuori di metri dopo quasi 5 ore, sempre contro Nadal, a New York.
Episodi di una carriera che somiglia tanto alle vite comuni, piene di “mancava così poco” e di delusioni accettate col garbo di chi aveva speranze ma in fondo è sempre abbastanza sveglio da non confonderle con le probabilità. A tradirlo pare sia stato il polso ma vale la pena credere che più di quello sia stato lo sgomento di non poter più essere lo stesso, il momento della vittoria è quello più triste di tutti perché sai che non riuscirai mai più ad essere contento come in quel preciso istante. E questi ultimi quattro anni, alla ricerca di qualcosa che non trovano diceva quello, forse li ricorderà con mestizia, ma non dovrebbe perché sono gli anni dei tentativi falliti che ci descrivono meglio delle poche cose riuscite. Siamo le nostre sconfitte in fondo, perché se fossimo le nostre vittorie tutto sarebbe ancora più inutile.
Thiem non verrà ricordato dalle masse che ancora piangono per i collezionisti di slam, con orrore gli si preferiranno forzuti che tirano dritto e rovescio sempre con la stessa espressione, buoni per collezionare punti e trofei, in una visione dello sport che fa quasi preferire la vita, posto che ci sia una qualche differenza. Domani lo ricorderanno in pochi, “andrà via dalla nostra mente piena” e che peccato però non saperne più niente.
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