Al passo d’addio, Francesca Schiavone ha il potere di farci sentire, già oggi, un po’ più soli. Quando ha vinto è venuta a dirci che si poteva farlo ancora, farlo meglio, fare di più. L’arte di sentirsi inappagati è una grande eredità, non solo per lo sport. Ma va raccolta, e lei è pronta a dare una mano. Altrove, purtroppo. I talenti italiani se ne vanno, non solo dall’università. Anche dal tennis.
Lasciare e ripartire. Consigliano di non perdere tempo. Di cambiare pagina e rimettersi rapidi in cammino.
«Ci sto pensando, le idee non mancano. Avevo bisogno di una nuova base, l’ho trovata. Mi godo questi ultimi mesi, poi ricomincio da capo».
Una base. E dove?
«America. Andrò a vivere là, a Miami. Ho una casetta lì, ed è quello che ci vuole. In un contesto che mi affascina».
Ma dai, l’America di Trump… E Miami poi, la città dei pensionati…
«Non sfottere. No, l’America che cerco è un’altra, e non c’entra Trump. Cerco un posto abituato a dare meriti a chi ne ha, un contesto in cui le capacità vengano riconosciute, dove non vi sia volontà di distruggere ma di apprezzare. Prova a considerarla una sfida, e neanche facile, temo. L’Italia? Non la ripudio, no davvero, le voglio un bene da pazzi. Per certi versi sarebbe stato più facile, avrei continuato a recitare nei panni della Schiavone che ha vinto a Parigi, a partecipare a eventi in nome di ciò che ho fatto, e guarda, prometto che se mi chiameranno verrò di corsa. Ma ho ancora voglia di investire su me stessa, di misurarmi con quello che so fare. L’America può darmi le risposte che cerco».
Che cosa porti con te in America?
«Porto la mia Italia. La mia creatività»
È ancora il nostro simbolo, vero?
«Lo è. Ci cercano ancora per questi valori, e ci cercheranno sempre. Noi tendiamo a sottovalutarci».
Non sarà facile insegnarla.
«Forse. Ma il quadro d’assieme è il migliore possibile. I ragazzi, laggiù, hanno basi solide, e non parlo solo di tennis. Ma non sanno andare oltre. Io posso aiutarli, penso di poter diventare una buona insegnante, lo faccio con piacere e disinvoltura».
La creatività è come la punta di un iceberg, sotto occorre un mare di cultura, per sorreggerla.
«È vero. È uno dei nostri problemi maggiori. I nostri ragazzi hanno slanci generosi, pensieri alti, ma basi poco solide. Sono problematiche che conosco, perché le ho vissute. Avrei voluto lavorare di più sulla mia conoscenza delle cose e del mondo. Ma lo sport professionistico impone ritmi non facili da abbinare al resto. S’impara dal mondo che frequentiamo, e non è tempo perso nemmeno quello. Avevo cercato agli inizi un approccio universitario, ma lo ammetto, lo sport ti assorbe completamente».
Sei una grande lettrice di libri, vero?
«Sì, una lettrice avida di libri. E un po’ strampalata nelle scelte»
Strampalata?
«Temo di sì. Per anni ho letto libri di psicologia. Tutti. Quanti ne hanno scritti? Mille?
Li ho letti. Dieci mila? Ho letto anche quelli. Ne sono uscita con la testa in fiamme e una visione delle cose un po’ contorta».
E ora?
«Niente libri di psicologia. Se ne vedo uno, scappo. Ma tanto di tutto il resto. Belle storie, soprattutto. Avventure».
La tua è una bella storia. Come la racconteresti?
«Senza fingere. La racconterei per quella che è stata. Ho sgobbato come una matta, ma la fatica vera non è quella fisica, piuttosto viene dal lavoro che serve condurre su se stessi. Trovare una propria strada, un modo di essere, di crescere, di farsi una ragione delle cose, di saper valutare le vittorie e le sconfitte. Ecco, questa è stata la parte più complicata».
Difficile da insegnare ai ragazzi…
«Sì e no. Occorre vedere che cosa hanno dentro. Certe motivazioni devono essere già lì, magari nascoste, ma dentro di loro. Certe voglie non s’introducono con un trapianto e non è facile insegnarle».
Due immagini di questi anni, che porterai con te
«Immagini di gioia. La mia, quando ho vinto Parigi. Una foto mi mostra mentre cerco di mangiare quella terra rossa, non vi fu niente di costruito, ci avrei provato anche fosse stato cemento. Poi, la gioia del pubblico di Melbourne, quando vinsi un bellissimo match con Svetlana Kuznetsova. Mamma mia, quanta intensità».
Il tuo addio strappa al tennis alcune forti connotazioni, la qualità nella costruzione di un match, e la gioia del gioco che tu hai saputo esprimere. Mi guardo intorno e non ne vedo molte altre, come te.
«Le giovani tenniste mi avvicinano, mi chiedono consiglio. La costruzione del match si può insegnare, ma nasce da una precisa scelta personale. Se non ti sai mettere in discussione, non puoi cogliere il momento utile per cambiare tattica di gioco. La gioia invece fa parte delle motivazioni di cui parlavamo prima. Difficile insegnarle, impossibile imporle. Però, è vero, mi sono divertita da matti a giocare a tennis. Ci ho messo tutta me stessa, e mi fa piacere, oggi, con tanti anni di partite sulle spalle, sentirmi ancora inappagata. Ho una voglia di vincere, e di stupire ancora me stessa e gli altri, che mi scuote dentro».
È questo il tuo segreto, Francesca? Sentirti inappagata?
«Sì. Non insoddisfatta, badate. Inappagata. Gioco bene e penso, posso fare meglio. Vinco e mi dico, fallo ancora. È uno stimolo forte, trascinante e a volte stordente. Ma spero non mi abbandoni mai».
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