Pennetta, il punto è solo suo

TENNIS – DI RICCARDO NUZIALE – Da quando ha annunciato il proprio ritiro, Flavia Pennetta è stata sommersa da inviti, giudizi: inizialmente il mondo social auspicava un suo ripensamento, mentre all’indomani della sconfitta contro la n.414 del mondo il giudizio è stato quello severo dell’incomprensione a continuare fino al termine della stagione. In entrambi i casi pecchiamo tutti d’ingrata presunzione.

 

Già a partire dagli istanti immediatamente successivi all’annuncio che ha scosso (fino a un certo punto) la cerimonia di premiazione degli US Open, il dubbio misto a curiosità: con addio al tennis diceva con questa partita o fino a fine anno?

Flavia Pennetta ha poi specificato che l’intento era di chiudere la stagione 2015, ma al preciso momento dell’annuncio, i social netwkork erano già teatro di tifosi sì felicissimi del trionfo, ma anche delusi del ritiro, invitando la Pennetta a ripensarci.

Una decisione, quella dell’azzurra, dettata probabilmente dal desiderio di giocare per la prima volta il Masters di fine anno. Dopo il trionfo dei trionfi sono però arrivati due tornei giocati comprensibilmente molto male. Comprensibilmente perché riaccendere il fuoco dopo quelle straordinarie emozioni, sapendo di essere comunque agli sgoccioli di carriera, in palcoscenici neppure lontanamente paragonabili all’Ashe, è impresa estrema. I veri avversari sono l’appagamento, la stanchezza mentale, la gioia ancora da smaltire. Il vedere già il futuro.

In particolare la sconfitta subita a Tianjin contro l’ucraina Lyudmyla Kichenok, modestissima n. 414 della classifica mondiale, non è piaciuta ai tifosi di mezza Italia: perché continuare per quei 2-3 tornei rimanenti anziché chiudere in gloria, nello stadio più grande del mondo, in compagnia dell’amica di una vita? Perché andare a fare figure meschine contro giocatrici che non le possono neppure essere paragonate? Commenti molto più pepati di questo riassunto edulcorato non sono ovviamente mancati su Facebook e affini.

Qualche giorno prima del sogno newyorkese, a Venezia andava in scena un altro “caso” social. Un Johnny Depp presentatosi al Lido con un look sicuramente rivedibile è stato vittima delle derisioni mediatiche, portando a particolare successo virale una lettera pubblicata da una blogger in cui la delusione nel constatare le fattezze non più da sogno di Depp si sono manifestate in un inglese volutamente macchiettistico. Un divertimento che si è propagato condivisioni su condivisioni, ma la cui qualità crolla per il semplice fatto che quelle righe non sono state scritte per il destinatario. Hanno l’ipocrisia di parlare a Depp, ma già in partenza erano destinate al soffice cuscino dell’apprezzamento di migliaia di persone. Una conversazione impari perché niente affatto conversazione, esattamente come i post scritti sui social dai tifosi della Pennetta. È la tipica facilità regalata dall’invisibilità della comunicazione di massa, cui questo stesso articolo non si sottrae.

C’è un cuore molto egoistico e violento nell’idolatria, sia essa riconducibile al divismo cinematografico o al tifo sportivo: gli idoli vivono in funzione delle nostre speranze, delle nostre aspettative.

Ed ecco che gli idoli cessano di essere esseri umani, ma diventano puri, inanimati oggetti del desiderio. In essi trasportiamo la nostra persona in situazioni che non potremo mai vivere, dandoci l’ebbrezza di essere loro (o ciò che incarnano) senza i rischi che tale posizione comporta. E quando essi non sono più in grado di garantire il loro ruolo utilitaristico, il cosiddetto amore si trasforma in risentimento, in astio, quasi in crudeltà. In fondo una fetta non così piccola di fan e tifosi, dietro la maschera dell’amore, non fa altro che giudicare, che esigere appagamento da quella proiezione tutta personale di sé che è l’idolo. Arrogandosi il diritto di schiacciare l’”amato” o “amata” sotto non richiesti consigli o presunti tali. Pensiamo ad esempio agli inviti di ritiro indirizzati a Federer o Nadal ad ogni loro sconfitta: se non vincono, meglio che non esistano, perché “non ce la faccio a vederlo così”.

Non si sa ancora quale sarà l’ultima partita di Flavia, ma una certezza l’abbiamo: il palcoscenico è suo e solo suo, per i meriti costruiti durante tutti questi anni. Solo lei ha il diritto di ordinare il momento del sipario.

Possiamo dilettarci all’infinito nel gioco di “se fossi Flavia Pennetta, avrei fatto questo”, ma la sterilità si palesa in partenza: Flavia Pennetta è solo una. Solo una ha vinto gli US Open, ha disputato la carriera che ha disputato ed è la persona che è. Solo una forse andrà al Masters. Noi siamo sul divano. E anche se non ci andrà, noi saremo sempre sul divano.

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