Ansie, dubbi e dolori del (non più) giovane Rafa

TENNIS – MIAMI – DI MASSIMO D’ADAMO (tecnico e coach internazionale) – Le sconfitte di quest’anno di Rafa Nadal sono sempre di più e sempre più sorprendenti. Tanto che lo spagnolo ammette di non essere più lui, di sentire l’ansia come mai prima d’ora. Quale sarà il suo futuro? Basterà tornare sull’amato e fedelissimo rosso?

Un tipo da combattimento… Che se avesse scalpitato in un tempo senza logica, avrebbe indotto Calderon de la Barca a farne un personaggio tutto cappa e spada. E qualche secolo dopo, avrebbe fulminato un ricercatore come Jokichi Takamine stimolandolo a isolare lo strano ormone all’origine di tanta tenacia. Rimettendo in ordine le cose, invece, scopriamo che è un eroe dei nostri tempi battezzato un lontano giugno dell’86 come Rafael Nadal Parera, da Manacor. Il picchiatore coi lineamenti da indio, che vive il tennis come una sfida medievale, è un soggetto che ha ghiandole surrenali tanto prolifiche da produrre adrenalina in quantità industriale e che il Padreterno ha dotato di tale attitudine alla lotta da suscitare invidia anche a qualche pellaccia di incallito boxeur. Il Buon Dio non si è allargato oltre e mentre ha abbondato in qualità fisiche e mentali ha lesinato su quelle tecniche… Nella certezza, naturalmente, che qualcuno se ne fosse fatto carico. Eccolo il volto arcinoto di un aristocratico palmares che tracima orgoglio per quei 65 titoli ATP, di cui 14 Major e un oro olimpico, colti su ogni superficie pur coltivando un amore viscerale per la terra color mattone.

Dichiarazioni pesanti
È bastata una dichiarazione, forse buttata lì per caso, per mandare in fibrillazione la parte più passionale del mondo racchettaro: «Non tornerò più al mio miglior tennis». Parole dette non certo a cuor leggero da un tipo avvezzo a forzati ritiri ma anche a grandi ritorni, che trae dal combattimento la sua profonda filosofia di vita. Forse è tempo di domande. Io una ce l’ho in pizzo alla lingua! Prima che cada meglio spararla a bruciapelo: Nadal poteva diventare ancora più forte? E nel farla mi chiedo se zio Tony abbia mai scavato nei segreti istinti del dorato nipote per cavarne un tennis più completo. O se, invece, si sia cullato su riflessioni appaganti senza aggiungere molto alla fame di vittoria che ha fatto del prezioso congiunto uno dei più grandi campioni dell’era moderna. In tempi non sospetti scrivevo che senza qualche correttivo, la carica agonistica del nostro eroe sarebbe stata, paradossalmente, anche il suo grande limite, perché dietro di lei si andava rintanando l’errore di pensare che “il resto viene da sé”.

Lo scrivevo non certo per fare il bastian contrario ma semplicemente perché così non è! Basta fare un rapido spolvero della formazione giovanile per rilevare qualche lacuna tra le tappe evolutive dello spagnolo nella sua scalata all’Olimpo del tennis. La pedagogia suggerisce che fino ai 10 anni venga privilegiata la psicomotricità attraverso un’attività giocosa e polisportiva. Privilegiando la ricchezza motoria, intorno agli otto anni si può strizzare l’occhio alla tecnica volgendo l’attenzione a una gestualità priva di fronzoli e poco dispersiva. E fin qui Nadal ha fatto tutto il necessario, praticando altri sport, tra cui il calcio, e giocando a due mani ambo i colpi all’insegna della migliore multilateralità. Al momento di scegliere ha opta- to d’istinto per la sinistra. Vale la pena dirlo, relegando a balla spaziale la leggenda che qualcuno l’abbia forzato a diventare mancino.

Gli errori iniziano subito dopo. Nel periodo 11-14 anni, il buon senso consiglia di lasciare spazio a una massiccia costruzione tecnica, quella che poi, con il continuo perfezionamento, accompagnerà il giocatore nella sua carriera. Al periodo Under 14, inoltre, si affida il compito di abbozzare un proprio stile di gioco che si definirà meglio nella fascia 15/18 anni, quando dall’attività giovanile si arriverà alle soglie del professionismo. In questa fase il piccolo Rafa sviluppa colpi istintivi, fa man bassa di tornei di categoria e coglie il successo sia nel campionato spagnolo sia in quello europeo Under 12. Il classico ragazzino prodigio guardato con ammirazione per quel modo di rincorrere la palla col coltello tra i denti sbagliando il minimo sindacale.

La giostra delle vittorie
Un giocattolo da lasciar girare, senza azzardare neanche piccoli ritocchi che potrebbero incriccare il sottile meccanismo: colpire, solo colpire, il resto arriverà! In quest’ottica l’imberbe spagnolo inforca, senza ripensamenti, la scorciatoia di un tennis fatto di poche cose ma di marcata intensità agonistica approdando tra i pro dopo aver sfiorato appena l’attività junior. Il suo coach viaggia sul velluto mandando in campo una pentola a pressione capace di giocare punto su punto con i globuli rossi armati di bazooka. Adagiato sui risultati, non cede alla curiosità di coltivare un tennis migliore in luogo di quello eccessivamente dispendioso del corri e tira che prima o poi avrebbe presentato il conto. Una scelta confortata anche da quelle strambe convinzioni ammantate di aria fritta che spesso nutrono molti giocatori e allenatori! Di solito sono il frutto di concezioni banali che per qualche ragione divengono dottrine usate in modo infingardo e qualche volta inconsapevole.

Le cambiali da pagare
Nel caso specifico, presto si fa largo la certezza che il modello spagnolo, perfettamente calzante a una lunga sfilza di caparbi arrotini, avrebbe funzionato anche per quel ragazzo dalle sconfinate doti fisiche e caratteriali. Così il giovane Nadal, si ritrova in un seminato che inizia a dare buoni frutti economici guardandosi bene dal provare strade diverse, magari minate da qualche incognita.

Il paradosso inizia a fare il suo corso e nel momento in cui deve arricchirsi e consolidare un bagaglio tecnico fatto di tante cose, la gallina dalle uova d’oro inizia a essere rincorso dagli sponsor e arriva a svolazzare tra i primi 100 del mondo appena sedicenne, esprimendo un tennis sempliciotto ma esuberante e a prova di fisico. Nella tipologia dei giocatori, Nadal cresceva come un’evoluzione di Vilas e Muster senza capire se potesse avere qualcosa anche di Connors, Mc Enroe o Rod Laver.

Le prime avvisaglie iniziano assai presto, con le sembianze di un’infiammazione al gomito arrivata appena dopo la prima vittoria al torneo di Barletta del 2003. Dopodiché volano via 12 anni di carriera con un susseguirsi di cambiali in scadenza: ben 14, distribuite tra problemi alla schiena, tendiniti diffuse, scafoide tarsale, fratture da stress, strappi addominali, infiammazioni ai tessuti. Fino all’ultimo infortunio al polso destro che lo tiene fuori da luglio a dicembre con buona complicità della iella che prende forma di una strisciante appendicite!

Le riflessioni di Rafa
Tanti ritiri e altrettanti ritorni, tutti trionfali: un’Araba Fenice capace di risorgere da colpi che ridurrebbero in cenere chiunque altro. Ora l’ennesimo faticoso rientro iniziato a Doha, passato per l’Australia e proseguito con la semi di Rio, la vittoria a Baires e i quarti a Indian Wells, dove le immagini, però, rimandano a un giocatore in lieve crescita ma ancora troppo falloso per pensare di essere competitivo tra i grandissimi. Da qui lo spauracchio di non tornare più al suo miglior tennis.

Non tanto l’età quanto il bollettino degli acciacchi, hanno sicuramente spinto Nadal
a una serie di riflessioni che a occhio e croce potrebbero incanalarsi in due binari: tecnico e competitivo. Il primo porta dritto alla necessità di non replicare il logorante gioco di sempre. Lui, che è un difensore coi fiocchi, ama arretrare ampliando a dismisura l’angolo delle traiettorie finendo per macinare chilometri, ossessionato da una palla che d’ora in avanti sarà sempre più lontana. Non posso pensare che il più forte giocatore del mondo non si sia mai posto il problema di guadagnare una postura qualche spanna più avanti per correre un po’ meno e comandare di più. Avanzando, l’angolo si restringerebbe quel tanto da consentire un buon governo dei colpi aprendo il gioco a nuovi schemi. Penso a quante geometrie in più avrebbe tra le mani abbreviando situazioni di gioco altrimenti logoranti. Penso a proiezioni a rete più frequenti gratificate da un gioco al volo che potrebbe dare di più. Penso alla frustata esterna da sinistra che fa del servizio mancino un castigo di Dio e che lui non ha mai avuto. Penso al rovescio in back spin poco incisivo perché eseguito col bacino indietro e in scia penso a un drop incerto, mai automatizzata. Cose neanche complicate, che darebbero al maiorchino un tennis di più ampia manovra con il beneficio di tanto sforzo in meno. Non è più tempo di vittorie figlie esclusivamente di quella miscela esplosiva elargita a piene mani da Madre Natura. Oggi deve fare altro!

Giocare di meno. E solo sul rosso…
Il secondo binario va verso una competizione più morigerata, lontana da quella famelica degli anni migliori. Ha giocato Indian Wells e ora sarà a Miami, ma per il futuro tutto fa pensare che al cemento favorirà le scivolate della terra. Un segnale l’ha già dato a Buenos Aires: «Se questo torneo cambierà superficie», ha detto, «non tornerò più». Dunque tutto fa pensare che voglia comprimere il grosso dell’attività sul rosso, limitando quella sul duro che per le sue giunture è come la grandine per gli orti.

Le altre incognite
Una scelta che se rispondesse a verità costringerebbe lo spagnolo a non dover sbagliare nulla pur di mietere punti utili al ranking e rimanere agganciato a Diokovic e Federer. Ma c’è anche un’altra incognita che vaga sul suo rientro. Si tratta di un tennis in continua evoluzione che sta tornando con potenza rinnovata verso un gioco a tutto campo. Non solo i primi ma anche giocatori come Wawrinka, Berdich e Raonic hanno perfezionato geometrie più complete e tra le loro mani passano con disinvoltura soluzioni al volo, smorzate e rovesci slice scivolosi come anguille. Per non dire del servizio… 

L’ennesima sfida, dunque. Lo spagnolo non si tirerà indietro. Ma temo che dopo l’ultima uscita dal circuito, il recupero sarà più tosto che mai. A poco serviranno i 4900 giri al minuto impressi alla palla da un diritto ad alta cilindrata se non saranno seguiti da qualcos’altro di più saettante. Come a poco serviranno i “vamos” tra un punto e l’altro. Dubbi che a breve avranno risposte esaustive. La terra europea è dietro l’angolo: l’autostima e le motivazioni dovrebbero fare il resto. E alla fine di Parigi sapremo se stiamo parlando ancora di un duellante degno di Calderon de la Barca o dell’ombra acciaccata di un tennista dal cuore generoso ma dal tennis un po’ avaro.

 

Tratto da Matchpoint Magazine 3-2015, in edicola

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