Australian Open. Nadal: «Prendo quello che viene, non tutti gli anni sono uguali»

TENNIS – AUSTRALIAN OPEN – DAL NOSTRO INVIATO A MELBOURNE DANIELE AZZOLINI – Una chiacchierata con Rafael Nadal alla vigilia dell’inizio di un primo Major stagionale cui a sorpresa si affaccia senza aver vinto un match nel 2015.

 

L’ultima gragnola pubblicitaria lo dipinge come connesso, anzi, connesso con se stesso, e conoscendo il tipo, viene quasi da sorridere. Rafael Nadal appartiene alle generazioni nate con il wifi incorporato e gli ultimi mesi, se possibile, l’hanno reso ancora più attento a quanto vada capitando al suo fisico, non più bestiale come un tempo, e nemmeno tanto esplosivo. Non dev’essere facile abituarsi a considerare come un bicchiere ricolmo a metà, le risicate stagioni cui da qualche tempo è costretto. Ginocchia, schiena, polso, e in più un’appendicectomia, tanto per non farsi mancare nulla: c’è di che proporsi come tesina per l’esame di Medicina all’università. Vale la pena starlo a sentire, dunque, quando si esclude dal settore favoriti di questi Open australiani che vanno a cominciare, per proporsi nei cenci più ordinari dell’outsider, ché onusto di titoli com’è, sarebbe uno sgarbo al buon senso privarlo anche di queste scarne percentuali. Concede appena una speranza agli insistenti giornalisti spagnoli, «se fra una settimana a partire da oggi, saremo ancora qui a parlare, forse mi troverete un po’ più ottimista su questo torneo», ma propone ben altri nomi per la vittoria, anzi, i nomi di sempre, rilanciando il quadrilatero dei Fab Four e dimenticando la nouvelle vague dei Raonic e dei Nishikori. Rafa vede Djokovic e Federer di punta e Andy Murray («che sta tornando a giocare il suo tennis migliore») a corredo. Mentre lui, quarto lato del dorato rettangolo, chiede venia per il momento e un pizzico di comprensione. Ma sul suo ritorno al ruolo che gli compete, non esprime dubbi. Di questo ne è «assolutamente certo». Nei modi e nei tempi che questa ripresa meno brillante di quanto avesse sperato, gli concederà.

 

– Sarà che abbiamo ancora negli occhi il suo travolgente 2013, nel quale passò dall’infortunio al numero uno infilando una vittoria via l’altra. Ma non ci aspettavamo di annotare uno zero nella casella dei match vinti, in queste tre settimane di vigilia degli Open. E forse nemmeno lei.

«Prendo quello che viene, e faccio tutto quello che devo fare e che so essere utile al mio completo recupero. Non tutti gli anni sono uguali e non tutte le condizioni si somigliano. Nel 2013 ripartii dai tornei sulla terra rossa, e questo rese tutto più facile. Le prime vittorie mi restituirono subito la fiducia che andavo cercando. Questa volta non è successo, ma mi sto misurando con una delle superfici per me più difficili. Poco importa. Mi sto allenando bene, faccio le cose giuste. Per ora va come deve andare».

 

A che punto sente di essere, in questo momento?

«Non lo so. Ma non credo abbia molto senso metterla in questi termini. Davvero volete che vi dica che sono al 50 per cento, o al 55, o magari al venti… E di che cosa poi? Di quello che dovrei essere? O di quello che sono stato? Credetemi, non ho neanche io un metro di paragone per esprimere un giudizio. Sono alle prese con un ritorno differente dagli altri, ne prendo atto e cerco di risolvere i problemi che di volta in volta si evidenziano. L’allenamento mi fa bene, ecco questo lo posso dire. Ma so da me che niente di quello che faccio potrebbe sostituire esattamente gli stimoli e le indicazioni che vengono da un match di torneo. Posso solo augurarmi di giocarne il più possibile, sin da questi Open».

 

Ogni volta che si torna si hanno dei dubbi… È così, no?

«Assolutamente. La sensazione di essere lontano da ciò che posso fare, e che so fare, è netta, ma la conosco bene, la vivo oggi nello stesso modo in cui l’ho vissuta altre volte, anche nel 2013. Lì finì tutto rapidamente, oggi non è così. Ma l’unico modo per ritrovare le giuste coordinate è darci dentro, non conosco altro metodo, davvero. Ho bisogno di giocare meglio, questo è poco ma sicuro. E ho bisogno di giocare più a lungo. Tutto qui…».

 

C’è una parte del suo gioco che sente di aver già recuperato a pieno?

«No, direi di no (sorride, un po’ affranto; ndr). Il servizio non va male, ma devo ritrovare un po’ di dinamismo, sul campo. Sono un giocatore che prende fiducia quando sento di potermi difendere al meglio, quando sono in grado di colpire la palla sapendo dove la voglio spedire. Ecco, quando mi sento forte, sono queste le sensazioni che mi accompagnano. Il mio tennis è sempre buono quando i movimenti sono buoni, quando sono in grado di avere il controllo del punto con il mio dritto. Ma il dritto per essere davvero buono deve tornare più aggressivo. Ecco, alla fine ve li ho confessati quali sono i miei pensieri di questi giorni».

 

E degli infortuni che ha subito, qual è quello che lo lascia più tranquillo?

«Non saprei esattamente. Le ginocchia, forse. Ecco, tutto può succedere, ma i problemi al ginocchio li avverto più lontani, insomma, non ci penso più. Polso e schiena, non so… Non credo di poter dire che sono al cento per cento riguardo a queste problematiche».

 

E la scelta della racchetta “connessa”?

«È una tecnologia importante, molto interessante, decisamente futuribile. Un microchip nel manico… La racchetta è sempre la mia, ovvio. Ma la possibilità di poter immagazzinare in un computer un mare di dati può aiutare a crescere. Il tennis ci chiede questo, no?».

 

Dalla stessa categoria