John McEnroe e le risposte che non arriveranno mai

TENNIS – DI RICCARDO NUZIALE – Oggi sono trent’anni: il 4 novembre 1984 a Stoccolma andò in scena l’episodio più feroce e forsennato della mitologia di John McEnroe, più ancora del “you cannot be serious!”. Era il n.1 del mondo, stava terminando la sua stagione divina, una delle più perfette di sempre. Fece una domanda all’arbitro. Nessuno ancora ha risposto, né a lui né a noi.

McCrucifix.

Gambe e braccia aperte e tese, in segno di resa. A umiliarsi bersaglio inerme: sparatemi, finitemi. Non reagirò. Quale subdola bugia di Iago! Non è certo lui la vittima, bensì il campo. Tanto che persino il Cristo blasfemo, anni dopo, l’avrebbe marchiato come il più imbarazzante dei suoi ricordi tennistici.

E il campo, il palcoscenico, aveva allora tutt’altro valore rispetto ad oggi: nel 1984 Stoccolma era un regno. Significava andare in casa dei furiosi dei svedesi. Lì il Cristo blasfemo affrontò per la prima volta in carriera, nel 1978, il Cristo nordico Bjorn Borg; lì per dieci edizioni consecutive, dal 1982 al 1991, almeno uno svedese è arrivato in finale. Quel 4 novembre le braccia della bilancia ATP proclamavano superiorità svedese anche nei confronti degli Stati Uniti: quattro top 10 i primi, tre i secondi, sebbene questi avessero dalla loro i primi due posti. Anders Järryd era il numero 2 di casa, dietro Mats Wilander, il 6 del mondo. Il curriculum in doppio di fine carriera (n.1, 8 Slam, Career Grand Slam, ¾ di Grand Slam per due volte) ha forse fatto dimenticare nel tempo le sue qualità di singolarista, best ranking n.5, una semifinale a Wimbledon e un trionfo al WCT 1986. Fu quindi molto meno semplice spettatore di Tom Gullikson, testimone del sabba di Wimbledon 1981. Järryd era giocatore di prima fascia.

E quel 4 novembre lo stava dimostrando, nella semifinale contro il Cristo blasfemo, dominio assoluto nel primo set, 6-1. Stava approfittando alla perfezione di un fatto: McEnroe, nome terrestre dell’idealizzazione di tormento e genio tennistico, era stanco. Quel 1984 così oltre ogni parametro conosciuto in precedenza, lo aveva sfiancato a livello psicofisico. Mantenere quel livello per tanto tempo non è possibile.

Neanche il 4-2 a proprio favore nel secondo set riuscì a calmarlo. Al servizio, una sua prima venne chiamata fuori e a quel punto McEnroe si vestì da Tommaso e volle tastare la piaga. Di chi o cosa non è ben chiaro. Di certo il tentativo di saziare la sua brama di conoscenza si rivelò sterile e deleteria recandosi verso il giudice di sedia Leif Ake Nilsson, 41 anni, di professione dentista. “Nessun errore in questo match, giusto? Non hai fatto overrule su niente, manco mezzo errore”.

Il fatto che McEnroe rispettasse la compostezza e il sangue freddo di Borg, non significa che lo apprezzasse in tutto il popolo svedese. Anni dopo, il quotidiano svedese Aftonbladet chiese a McEnroe se si ricordava di Nilsson: “Non ricordo nessun giudice di sedia in particolare. Facevano tutti ugualmente schifo”. Nel ricordare l’episodio, Nilsson ha ammesso candidamente che “se avessi avuto una risposta alla sua domanda, gliel’avrei data, ma tutt’oggi non so che dire. Se gli avessi dato una risposta appropriata, forse l’avrebbe accettata. È che proprio non seppi che dire. Per questo dissi ‘Seconda di servizio’”.

McEnroe aveva già ricevuto un warning, nel secondo game del match. La risposta al robotico “second serve, please” gli costò un penalty point, salutato con una pallina scaraventata in aria e, perso il break di vantaggio pochi istanti dopo, perse la cognizione della realtà. O forse la intensificò, la concentrò, come mai gli è riuscito. Nel recarsi alla propria postazione di riposo, lottò con tutta la violenza in corpo. “Erano bicchieri veri, di vetro, non di carta”, ricorda Nilsson. “Ero un po’ shockato, ma non feci niente. Mac era una stella. Non sarei riuscito ad andare dal giudice per chiedergli di squalificare John”, ammette invece Järryd.

Il Cristo blasfemo però era ormai certo della fine del match. Si alzò platealmente, tra gli indignati fischi del pubblico (tra cui è dibattuta la presenza del re di Svezia: McEnroe sostiene che fosse lì, Nilsson e Järryd il contrario) gesticolando all’arbitro richieste di conferma di una squalifica che non arrivò. Semplice game di penalità, per l’aggancio del 4-4.

Ma come ricorda Järryd, “quando succedevano episodi di quel tipo, il più delle volte iniziava a giocar meglio, e in quel match cominciai a innervosirmi un po’. Altri giocatori si sarebbero sciolti, ma non lui. Lui mai. Diventava più pericoloso”. Tradotto in termini pratici, game set and match McEnroe, 16 76 62. Vinse anche la finale contro Wilander. Gli svedesi possono pure essere dei nordici, ma lui è lui, né più né meno.

L’anniversario di una delle piece teatrali più leggendarie del nostro sport è occasione ideale per cercare anche da parte nostra una risposta, probabilmente destinata a dividere, a non trovare una soluzione rappacificante. Il mito è giustificato dalla propria storia e dalla distanza temporale? In altre e più dirette parole, l’esaltazione di fatti chiaramente anti-sportivi è data dalla mitologia passatista? Perché giustifichiamo a posteriori le pietre miliari di colorita follia dei vari McEnroe, Nastase, Connors, quando allo stesso tempo siamo oggigiorno in prima fila nell’affossare moralisticamente i teatrini dei Fognini, dei Gulbis, a suo tempo dei Koellerer? Qual è il passepartout che rende intonse le gesta dei “cattivi” del passato? La grandezza dei giocatori, è forse la risposta più immediata: il fatto che siano stati fuoriclasse li purifica dei loro comportamenti non proprio da gesti bianchi. Ma la grandezza agonistica è il solo giudice che divide chi può permettersi certi atti dagli altri? I “geni” dai “maleducati”? McEnroe era un “grande” nelle sue escandescenze perché uno dei più grandi fuoriclasse della storia, mentre Fognini un “bulletto” perché totalmente sprovvisto di un curriculum che gli/ci permetterebbe di giustificarlo/esaltarlo? Tali atti sono specchi della manifestazione del genio del loro interprete o meri atti di bassa (vera) umanità, interpretabili a seconda del nome?

Trent’anni, e ancora nessuna risposta.

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