Quale forma ha l’acqua? In verità l’acqua prende la forma che le viene data, perché si sostiene che non ne abbia davvero una tutta sua. Proprio come un liquido, incapace di acquisire una sola forma, il tennis di Jannik Sinner fluisce, si adegua a ogni foggia o situazione. Scorre inesorabile ignorando gli ostacoli e procede […]
30 Mag 2014 18:30 - Interviste
Roland Garros – Federer a cuore aperto: «Piansi per Leo e Lenny, e quella finale a Wimbledon con Nadal..»
di Daniele Azzolini
TENNIS – a cura di Daniele Azzolini
PARIGI.Vi sono le interviste al femminile, e dunque, anche quelle al maschile. Va da sé, sono interviste differenti. Né migliori né peggiori, solo differenti. Per l’impostazione, per il modo di mettere a proprio agio l’intervistato, per la ricerca di certi particolari più intimi.
Alcune interviste al femminile somigliano a giochi di società, quelli che si fanno sulla spiaggia, disponendosi in circolo. Si dà un tema e lo si consuma come fosse un calippo, passandosi il bastoncino. Il giorno… in cui hai messo a segno tuo punto più bello; in cui hai pianto nello spogliatoio; nel quale ti sei detto che non valeva la pena andare avanti; in cui avresti preferito essere un perfetto sconosciuto. Insomma, il giorno dell’intervista perfetta… Che funziona benissimo se l’intervistato non risponde a monosillabi o non ti dice di farti i cazzi tuoi. Ma se l’intervistato è Roger Federer, dite voi, come sarebbe possibile una simile barbarie? E infatti, Roger è stato al gioco, una volta di più, e l’Equipe ha potuto pubblicare nel suo inserto odierno sul Roland Garros una pagina interessante, curata da Christine Thomas, che noi – immodestamente e a grandi linee – vi riportiamo…
LE JOUR OU (rigorosamente maiuscolo), il giorno in cui… Hai messo a segno il punto perfetto.
«Me ne vengono in mente due. Il primo è la palla-match che ho salvato nel 2008, in finale a Wimbledon, contro Rafa. Non tanto per il colpo in se stesso – fu un passante di rovescio lungo linea sull’8-7 per Nadal nel tie break del quarto set – quanto per l’importanza che ha avuto nell’economia del match, e nella costruzione di una partita epica. Che è stato Nadal a vincere, badate bene, non io. Ma è stato ugualmente un grande match che forse, se si fosse concluso al quarto set, non sarebbe passato alla storia. Sapete? Mi tornano spesso alla mente le sensazioni che provai nel momento di tirare quel colpo. Quando vidi Nadal scendere a rete sul mio rovescio, passai in un attimo dal dirmi, “ecco, è finita”, al decidere di provarci in modo diverso, scegliendo una traiettoria che Rafa non poteva aspettarsi. Sentii il colpo partire perfettamente dalla racchetta… Il secondo colpo perfetto fu più spettacolare che altro. Primo turno a New York, 2010, avevo di fronte Brian Dabul. Giocavo un tennis molto aggressivo, molto proiettato a rete. Lui però mi fece un gran pallonetto. Lo rincorsi e colpii la palla fra le mie gambe, le spalle rivolte alla rete. Feci un gran punto, e fu anche molto difficile, perché la palla era lontana».
Il giorno in cui… Hai pianto nello spogliatoio dopo una sconfitta.
«Mi capitava spesso quando ero ragazzo, ma anche ora, qualche volta. Solo che le mie lacrime di oggi sono più leggere, si esauriscono in fretta. Sono uno che piange, lo so. Ma oggi mi capita di farlo più spesso a fronte di grandi emozioni, di grandi gioie. Ho pianto per la nascita dei miei due gemelli, Leo e Lenny. Vederli, conoscerli, è stata una felicità enorme. Se penso al passato, però, non credo di aver mai pianto così tanto come dopo la sconfitta nella semifinale olimpica a Sydney, contro Tommy Haas. Ero sfavorito in quel match, ma poi, dopo averlo perduto, mi sono reso conto di quale occasione avessi buttato via. Credo di aver pianto per un’infinità di tempo, quella volta, ero davvero inconsolabile. C’erano in ballo l’Olimpiade, la Svizzera, la medaglia… Il giorno dopo scesi in campo per la finale che valeva il bronzo, e non ero io. Persi anche quel match, contro Arnaud Di Pasquale, e mi rimisi a piangere per un giorno intero. Poi la sera, ho incontrato Mirka, e l’ho baciata per la prima volta. Be’, è andata proprio così…».
Il giorno in cui… Ti sei detto che era meglio lasciare il tennis.
«Mi chiedo piuttosto se possa esistere qualcuno in grado di rispondere a una domanda del genere. Chi può sapere quello che nemmeno io so? Non gioco tanto per fare, e nemmeno per far sapere a qualche giornalista di avere avuto torto nei miei confronti. Gioco ancora per le emozioni che provo, per le sfide che mi propongono gli avversari, per gli amici del mio staff, che credono in me, e che penso sia giusto ricompensarli mostrando ancora qualcosa di buono».
Il giorno in cui… Avresti voluto essere del tutto sconosciuto.
«Mi capita spesso. E più vado avanti più ne avverto la necessità. Ma dite, esiste ancora una vita privata, oggi, fra telefonini, video, chat che mostrano e indagano ogni aspetto di te, della tua vita? Non so, dico solo che tutto ciò un po’ mi spaventa».
Il giorno in cui… Hai dubitato di te stesso.
«L’anno scorso, a Gstaad, quando ho perso da Brands. Sentivo che il mio fisico non ne poteva davvero più. Avevo giocato maluccio a Wimbledon, in condizioni già critiche, ma ancora possibili. Poi mi sono fatto male di nuovo, giocando a pallone. Schiena completamente bloccata. Provai a giocare ancora qualche torneo, ma senza speranza. Mi sono sentito di fronte a sensazioni nuove, il mio fisico non si era mai comportato così. Ho avuto paura, non lo nego. Ho reagito chiedendo a tutti gli amici, a tutto il mio staff, di sedersi intorno a un tavolo per aiutarmi a prendere una decisione. Ne siamo usciti bene, a quanto pare».
Il giorno in cui… Sei rimasto toccato dalla tristezza di uno dei tuoi avversari appena battuto.
«Sempre, nei miei match contro gli svizzeri. In particolare quelli contro Marco Chiudinelli. I più difficili per me. Ci ho giocato due volte, nel circuito, ed è stato terribile. Perché mi venivano in mente le nostre sfide da bambini, al circolo Old Boys, nelle quali finivamo sempre in lacrime. Anzi, quando giocavo bene io, piangeva lui, e quando capitava il contrario, piangevo io. Ma ci siamo sempre sostenuti. Siamo sempre stati amici».
Il giorno in cui… Scriverai un’autobiografia.
«Non credo che lo farò. Ci sono così tante cose che appartengono solo a noi, a me e a mia moglie, a me e agli amici dello staff. Non credo di avere voglia di metterle in piazza. Non mi dispiacerebbe invece essere al centro di un documentario. Ho visto quelli su Madonna e su Senna, mi hanno molto toccato. Ecco, quella potrebbe essere una via percorribile».
Il giorno in cui… Edberg ti ha detto sì.
«Quando gli ho chiesto di diventare il mio allenatore, Stefan mi ha risposto che voleva rifletterci, e che mi avrebbe dato delle notizie. È stato un bel modo di rispondermi, l’ho molto apprezzato. Sentivo che lui era contento del fatto che io glielo avessi chiesto, e anche che voleva darmi una risposta seria, ponderata. È stato durante il torneo di Basilea che mi ha detto di essere disponibile per un periodo di allenamenti assieme, a Dubai. Quando è arrivato, ho potuto presentargli la mia famiglia, gli amici che lavorano con me, Severin Luthi e Pierre Paganini, ho potuto cenare con lui qualche volta. L’ho osservato a lungo. Stefan ha uno stile di vita, non solo di gioco, che mi affascina. Lo rispetto moltissimo. Il suo sì è stato in definitiva un grande onore».
Il giorno in cui.. Dovrai affrontare la Francia nella finale di Coppa Davis.
«Correte troppo, non vi pare? In ogni caso, vedremo… Gioco la Davis per il piacere di condividere qualcosa d’importante con le persone a me più care, con Stan Wawrinka e con gli altri. Vincere o meno la Davis non mi cambierà la vita. Ma vincerla tutti assieme sarebbe molto bello».
Il giorno felice che vorresti rivivere tale e quale.
«Non un giorno intero, mi bastano cinque secondi. Quei cinque secondi nei quali mi resi conto di aver battuto Pete Sampras a Wimbledon, negli ottavi del 200
1. Sul match point ero convinto che mi avrebbe servito esterno, non so perché, ma ne ero certo. Lo fece, e io ero già pronto. Incocciai benissimo la palla con il dritto. Feci il punto e qualcosa dentro di me esplose. Mi dicevo… Dio mio, non è possibile, l’ho battuto davvero. Cinque secondi appena. Ma sono stati cinque secondi bellissimi».