di Salvatore Sodano C’era un ragazzo che come me… amava i Beatles il Rock&Roll… e il tennis? Forse, ma scavando nel fotocatalogo dei vip, a disposizione nella banca dati, di Morandi tennista non c’è traccia. Allora? Cosa c’entra Morandi con il tennis, a parte le circostanze che spesso lo hanno visto esibirsi negli stadi del […]
Ha sacrificato la Davis per non avere rapporti con David Nalbandian e con il capitano Martin Jaite, e l’Argentina non gliel’ha perdonato. Ha puntato tutto sugli Slam e i Masters 1000, ma ha rimediato appena una semifinale a Wimbledon, e agli Us Open si è fatto battere dal vecchio guerriero Hewitt. Ha avuto problemi fisici e personali. Non solo: la racchetta con cui gioca è stata messa fuori produzione. Malgrado tutto è a un passo dalla Top Five e dalla qualificazione al Master. «Posso chiudere alla grande». Ma deve ritrovare slancio
di ALFREDO BERNARDI (*)
Le luci dell’Arthur Ashe non hanno illuminato Juan Martín del Potro come lui aveva immaginato. O meglio, potremmo dire, in modo figurato, che lo hanno abbagliato. La sua ripartenza da New York è stata molto più rapida di quanto sognasse. L’obiettivo minimo era assicurarsi il posto in un ipotetico match nei quarti di finale con Novak Djokovic. Tutto, però, è terminato in una maniera veloce. Un vecchio campione, l’australiano Lleyton Hewitt, ha eliminato il giocatore di Tandil nel secondo turno del torneo nordamericano.
Poco, veramente poco per un numero sei del mondo. Tanto più se si tiene conto che l’aspettativa per il 2013 era volare nei piani alti dei grandi tornei. La speranza non si è tradotta in realtà.
L’ossessione Davis
Facciamo un ripasso. Alla fine di dicembre dell’anno scorso, Del Potro convocò una conferenza stampa per annunciare i suoi programmi per questa stagione. Dichiarò che il suo tennis si sarebbe concentrato sul conseguire buoni risultati nei tornei del Grande Slam e nei Masters Series e sull’essere un top 5. Per perseguire questo obiettivo, aveva preso la decisione di non rappresentare l’Argentina nella Coppa Davis.
Delpo era stato molto chiaro, ma in un paese nel quale la Coppa Davis è un’ossessione (si sono perse quattro finali), il rifiuto a far parte della squadra nazionale non fu preso molto bene. Diciamo che la sua rinuncia non era motivata da una questione di obiettivi e di calendario. Del Potro ha evidenti divergenze con Nalbandian, una disputa che si estende, andando a comprendere anche il capitano della squadra argentina, Martín Jaite, il quale è stato allenatore del finalista di Wimbledon 2002 e vincitore del Masters 2005. Le differenze tra Delpo e David sono inconciliabili. Si tratta di una questione di ego e personalità, sommato al modo di dirigere la squadra di Jaite. Due temi chiave al momento di parlare della Davis. Così Delpo, per una questione di salute mentale, ha deciso di prendersi tempo. Sa che a Nalbandian resta ancora solamente un breve pezzo di carriera e che, in breve tempo, si troverà a essere lui il leader della squadra. E prendere questa decisione ha comportato anche un certo costo in termini di pubblico.
Due vittorie, le solite
Così tutti, incluso Delpo, avevano immaginato un anno di grandi risultati. Ma a parte i titoli a Rotterdam e Washington, la finale di Indian Wells e la semifinale di Wimbledon, l’argentino non ha giocato ai livelli sperati. Ha perso al terzo turno in Australia; non ha giocato al Roland Garros come conseguenza di un infortunio; da New York se ne è andato prima del terzo round, il peggior risultato dalla sua prima apparizione agli Us Open, nel 2006; è uscito presto anche nei Masters 1000 di Miami, Montecarlo, Roma e Canada… Nonostante tutto, è sesto nella Race e dovrebbe qualificarsi per il Masters di Londra.
Problemi a non finire
Come diceva il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, dobbiamo parlare dell’uomo e delle sue circostanze. Analizzare solamente lo sportivo senza vedere il contesto darebbe luogo a un’analisi semplicistica.
Ecco altri fattori della vita di Delpo che hanno contribuito a non fargli ottenere i risultati sperati: è stato colpito da un virus, ha sofferto di lesioni per il ricorrente problema al polso sinistro (dopo che era stato fermo un anno in seguito all’operazione al polso destro) oltre alle ripetute contratture dorsali. A questo si sono unite, appena giunto a Miami, alcune complicazioni della salute di sua madre. Inoltre, dopo tredici stagioni, ha rotto il legame con il suo manager, l’italiano Ugo Colombini. Poi sta giocando con l’incertezza di poter utilizzare le racchette che vorrebbe: è senza contratto con la Wilson e si sente maggiormente a suo agio con un modello molto vecchio che l’azienda americana non produce più.
«Le cose si sono complicate all’inizio dell’anno, per non aver giocato bene in Australia. Nella mia testa, un risultato negativo lì ha influito parecchio, ha giocato un fattore importante. A questo si è unito il problema di mia madre, che adesso comunque sta bene. Uno è umano, anche mentre gioca a tennis. Quando va bene ci concentriamo sulla pallina e dimentichiamo la vita per un po’. Per com’è andata, essere sesto con possibilità di entrare nel Masters è uno slancio verso la stagione asiatica e gli ultimi Masters 1000 dell’anno», ha dichiarato l’argentino prima di abbandonare il Billie Jean King Tennis Center.
«Bisogna essere preparati mentalmente, specie quando hai qualche guaio fisico. Sto imparando a combattere con questo fatto, e voglio continuare a giocare. Per quanto mi riguarda, la parte delicata del mio corpo sono i polsi; Nadal soffre per le ginocchia e Federer e Djokovic per altre cose», ha aggiunto prima di andarsene.
Tutto dipende da come si guarda il vaso. Se lo si giudica mezzo pieno o mezzo vuoto. Se si analizza il ranking mondiale, prima di questo panorama, un sesto posto a un passo dalla qualificazione per un nuovo Masters, la situazione non è per nulla disprezzabile. Se uno aspira a un rendimento in linea con il suo potenziale e le possibilità tennistiche, il sapore è agrodolce.
Uno scontro con se stesso
A quasi 25 anni, si può supporre che Del Potro si trovi nel bel mezzo di uno scontro con se stesso, in cerca di un equilibrio che lo faccia diventare un po’ più maturo e meno discontinuo nel suo girovagare per il circuito. Generalmente, i migliori rendimenti degli sportivi si producono nella frangia d’età che va tra i 25 e i 27 anni. È per quello che il miglior giocatore argentino del momento deve guardare a questo anno di “transizione” come a un trampolino che lo proietti nei piani altissimi della classifica, lì dove deve stare.
Chiaro che l’ultima parola spetterà sempre al giocatore, il quale, come succede abitualmente qualunque sia la sua indole, sarà il padrone della verità e del suo destino.
(*) Alfredo Bernardi è uno dei più noti
e accreditati giornalisti di tennis argentini.
Scrive su La Nacion.