È come il Montecristo di Jovanotti, Matteo Berrettini, simbolo di nuovi orizzonti che si schiudono, lungo una strada, nel corso di un viaggio, anch’essi rinnovati, e mai prima affrontati.
Matteo il tennista è simile al Conte che “dopo aver girato mezzo mondo con il cuore in gola, mette molte vite dentro una vita sola”. È successo anche a lui, che dopo undici infortuni in tre anni, assapora oggi un nuovo inizio, dove tutto ciò che gli è successo sarà la ragione del nuovo “io” che verrà. Gli farà da viatico questa Davis, che è come un miracolo, l’ennesimo, ma non l’ultimo. E Matteo che se la stringe al petto, nella piccola riproduzione che farà da ricordo, è l’uomo che di quel miracolo ci rende partecipi. La tiene tra le mani mentre scende dall’aereo, quasi come una reliquia. Non la mostra, non se ne fa vanto, la tiene così solo per i suoi occhi. Ma la gente lo vede, come si fa a non vederlo alto com’è, e gli si avvicina. Un attimo e sono già in duecento. Poi trecento. Il settore “arrivi” di Fiumicino diventa due ali di folla da fendere, lasciandosi toccare e concedendo “il cinque”. Scatta l’applauso, lungo, quasi accorato. Roma lo accoglie così. E credo che mai accoglienza sia stata così spontanea, così naturale, così partecipata. Così bella…
Domenica è stato il giorno della conquista, della Coppa di tutti, dell’amicizia che si rinnova, degli abbracci, dei lacrimoni che non ce la fai a tenerli su. Cuore ed emozioni davanti a tutto il resto, come lo sport esige, riscoprendo gli aggettivi dell’epica che aggiungono allori sui riccioli degli atleti e li configurano come terrene divinità. Oggi invece è la giornata delle valutazioni, della rilettura attenta e ponderata di ciò che è successo, della presa d’atto e dei dubbi che si sono messi di traverso. Non in questo caso, però. Dubbi non ce ne sono, l’Italia ha portato a termine un’impresa accessibile, per quanto sia sempre umanamente arduo combinare impegno e vittoria con il favore dei pronostici che rappresentano il vento più anomalo tra tutti, e talvolta si rifiutano di soffiare dalla stessa parte. È la vittoria che chiude la stagione più bella, s’è detto. Ed è vero. Dentro la Coppa c’è un anno con ventiquattro titoli, se vi va di crederci, uomini e donne insieme, in lieta e perfetta parità. Ed è stata una vittoria di squadra, nel senso più ampio del termine. Tutti hanno aggiunto qualcosa, quelli che c’erano e quelli che non c’erano, ma ci sono stati e si sono fatti sentire (Arnaldi, Cobolli…) quando ce n’era il bisogno. Tutto vero, inconfutabile. Con un’aggiunta che però non deve mancare… Se la vittoria è di tutti, lo è stata un po’ di più per Sinner. E più ancora per Matteo Berrettini.
Credo sia giusto fare questa piccola digressione. Matteo la merita. È lui il giovane Montecristo al centro di una storia senza fine nella quale la speranza non muore mai, bella da raccontare proprio come i miracoli, che sono per natura misteriosi, e al di sopra delle leggi dello sport. Nei momenti che contano, Matteo Berrettini si trasforma. È come se l’insieme dei sensori che lo allertano prendesse a vibrare, imponendogli una presenza diversa sul campo. Più attenta. Più risoluta. Non soltanto un modo per evitare sciocchezze, ché quelle fanno parte del gioco, e Matteo ha un tennis già rischioso il suo. Ma per raddoppiare le forze nei momenti di massima tensione.
Ne sorte, Matteo, senza una sola scalfittura. Cinque match in singolare tra Bologna e Malaga, tutti vinti. Uno in doppio, giocato benissimo e vinto anch’esso. «Mi ha preso in braccio e mi ha portato sulle spalle», l’ha omaggiato Sinner, che è un giovane di poche ma sentite parole. «Siamo amici proprio per questo», rivela Berrettini, che è romano e con le parole ci sa fare, nutrito dal mental coach Stefano Massari con letture serali a base di commedie divine e inferni danteschi non dissimili da certuni che Matteo ha vissuto in prima persona. «Ma quando devi risalire e non ce la fai», gli diceva Massari, «cos’altro puoi utilizzare se non quello che hai dentro, la cultura che hai immagazzinato, i pensieri che hai affrontato leggendo un libro?».
Amici che si sanno parlare, lui e Sinner. «Siamo diretti, ci diciamo quello che pensiamo, non ci giriamo intorno. Io lo stimo tantissimo», aggiunge Matteo, «perché ora che è numero uno mostra ancora più umiltà di prima, ed è di una pulizia nei pensieri a dir poco maniacale». È quasi fiero, Matteo, quando parla di un’amicizia che l’ultima Davis ha come sigillato, inglobandola in una squadra che proprio di amicizia si ciba, finendo per dare consistenza alle promesse fatte un anno fa, e che tra amici non sarebbe stato giusto restassero lettera morta. «La prossima Davis la vinciamo assieme», aveva detto Jannik al Matteo capo popolo che l’anno passato aveva fatto il tifo dal box della squadra. «Non mi aspettavo accadesse così presto», dice ora Matteo, «ma questa squadra è fenomenale, fortissima», e si ferma qui. Inutile annunciare i prossimi trionfi. Una terza Davis consecutiva, il suo ritorno ai piani alti dello sport che ama così tanto.
The Tennis Letter, un angolo del nostro sport su “X” il nuovo Twitter, ha dedicato ieri a Matteo queste parole… “Nessuno la merita più di Matteo (la vittoria in Coppa). Nonostante tutti gli infortuni e le battute d’arresto che ha dovuto affrontare in queste ultime stagioni, ha perseverato. Quando ami qualcosa tanto quanto Matteo ama il tennis, non smetterai mai di lottare per ottenerla”.
Ma è già l’ora di ripartire. Nuovo team (manca ancora il coach), nuova fiducia, vecchi appuntamenti. E tanti cattivi pensieri da mettersi alle spalle, dalle ombre della depressione, alle delusioni che l’hanno spinto sull’orlo del ritiro. «Quando sento l’inno italiano, mi do dei pizzicotti e mi chiedo se sia tutto vero… Ho avuto il coraggio di non mollare, questa vittoria la dedico anche a me». Sì, Matteo, è proprio l’ora di ripartire.
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