La parola del Direttore

La Storia e Djokovic, il più grande agonista di tutti i tempi

La Storia è un terno al Lotto, e vale una cifra spropositata. Dieci, ventiquattro, sette… Le vittorie agli Australian Open, lo Slam che più di ogni altro si è concesso al suo corteggiamento. I titoli conquistati nel Grand Slam, due più di Rafa, quattro più di Roger. E le Finals che chiudono una stagione da 15 milioni, 936 mila e 97 dollari. Al netto della Davis, «che vorrei tanto regalare al popolo serbo».

La Storia comincia vincendo e finisce trionfando. Sono i 98 trofei sollevati in diciotto anni, dal 2006 di Metz e Amersfoort al 2023 che incornicia tre Slam e una finale a Wimbledon, due Masters 1000 (Cincinnati e Bercy) e le Finals, più Adelaide che serviva da allenamento per gli Open di Melbourne. Nole si porta a meno cinque da Federer, e potrà raggiungerlo già nel 2024, e a meno undici da Connors, che sta per diventare un obiettivo concreto. La Storia è fatta di numeri che oggi appaiono irraggiungibili, destinati a durare chissà quanto ancora. Ieri le settimane in testa alla classifica sono diventate 400, l’altro ieri le sette Finals hanno spinto Federer al secondo posto. Prima di Torino, i Masters 1000 sono diventati 40.

Ma la Storia è anche un momento di abbandono tra le braccia dei figli, che chissà se l’hanno mai visto perdere. Tutti abbiamo annotato come l’arrivo a Torino di Tara e Stefan, nel giorno prima della semifinale, abbia cambiato il tennis di papà Nole, di nuovo indistruttibile contro Alcaraz poi dilagante con Sinner nel match decisivo per il titolo. Ma qualcuno si è spinto oltre, e ha ipotizzato che Novak abbia voluto lì i figli sapendo che gli avrebbero dato la carica giusta per il Gran Finale. A questo si spinge la cinica professionalità di un tennista che Sinner ha definito un’ispirazione per tutti gli altri, che lo inseguono, che si affannano per strappargli un set, e si arrabattano cercando di stargli vicini? Nole è così, stravince ma non piace, non sempre. «Trae le motivazioni dalle sue stesse frustrazioni», l’ha graffiato di recente Nadal, con una frase che poi si è pentito di aver detto. Ma come è possibile che l’uomo che tutto vince possa sentirsi insoddisfatto? Per via di un Grande Slam che non ha mai preso forma, malgrado per quattro volte (una più di Federer) abbia vinto tre Slam su quattro? O per la ricerca del GOAT che si sta rivelando più vana di quella del Sacro Graal, dato che la maggioranza mette il cuore e le emozioni avanti ai trofei, e finisce per preferire Federer?

Essere Novak Djokovic stava diventando difficile. Anche per lui, legittimo proprietario della griffe più vincente che si sia mai vista. L’ho percepito con una certa sorpresa proprio quest’anno, che pure è stato tra i più ricchi di titoli (ha fatto meglio nel 2011 con dieci e nel 2015 con undici) e di premi. Essere sempre il tennista giusto al posto giusto nel momento giusto, mette ansia. Fa salire la pressione. Crea quell’apprensione sorda e lancinante come un mal di denti che si traduce in una profonda inquietudine. E l’angoscia, da sempre, è la nemica più traditrice. Così, l’uomo che ha sempre avuto una risposta corretta, legittima e appropriata da dare ai propri avversari, ha vissuto buona parte della stagione tra le immancabili voglie di assoggettare il tennis, ma anche con la sensazione che un nuovo avversario potesse impedirglielo. Uno che mai si sarebbe aspettato di avere contro. E che molto gli somiglia. Se stesso…

Non ha smesso di vincere, del resto non l’ha mai fatto. Ma vi stava riuscendo senza sprintare come un tempo. È apparso talvolta cauto, spesso preoccupato, afflitto da pensieri che non ha mai avuto, e il gioco non è sgorgato com’era solito fare, non è fluito dalla testa alle membra con la facilità cui ci aveva abituato. Quando Alcaraz l’ha sconfitto a Wimbledon, per la prima volta l’ho visto spaccare una racchetta sul paletto della rete. E a Torino l’ha rifatto, raddoppiando rabbia e racchette fatte a pezzi.

Eppure le Finals si sono chiuse con i due migliori match della stagione, nelle quali Djokovic è tornato a proporsi come imbattibile, forse irraggiungibile.

«Ne sono orgoglioso», ha detto, «e continuerò così finché il fisico reggerà, la mia famiglia non si sarà stufata, e gli avversari non mi prenderanno a calci nel didietro. Punto agli Slam, alle Olimpiadi. Punto a esserci, al fatto che se questi ragazzi mi vogliono battere devono giocare il miglior tennis possibile. Alcaraz, Sinner e Rune saranno i tre che dovranno spingere il tennis, come abbiamo fatto io, Roger e Rafa. Ci riusciranno, non temo il contrario. Ma finché sarà possibile dovranno vedersela anche con me».

Parole del più grande agonista che lo sport abbia conosciuto. Il 2024 sarà tutto da scoprire. Ma Djokovic ci sarà. Come sempre, alle sue condizioni.

Daniele Azzolini

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