Ventiquattro era il numero di Black Mamba sulla maglietta dei Lakers. Ora è anche il numero di Novak Djokovic, il Vecchio Aspide Bianco, e fa bella mostra di sé ricamato su una t-shirt preparata per l’occasione, che ricorda l’ennesima vittoria nello Slam e l’amicizia fra i due. «Volevo questo successo per dedicarlo a lui, Kobe Bryant, che mi fu vicino e mi seppe sostenere in uno dei momenti più delicati della mia vita».
Kobe scrisse un libro, The Mamba Mentality, per dire al mondo che nella sua vita sportiva da cinque titoli Nba e due ori olimpici, la motivazione più forte l’aveva trovata dentro se stesso, traducibile in una breve regola utile a tutti: cercare ogni giorno di essere nella migliore versione di se stesso. Osservando il Djoker indossare la maglietta e pregare per il Mamba (scomparso nel gennaio 2020) inviando baci al cielo, mi sono chiesto quante affinità vi fossero tra due atleti così distinti e distanti, e l’elenco non si è riempito in modo incoraggiante. Ma la regola al centro di Mamba Mentality, quella sì, l’hanno rispettata entrambi, fino in fondo, ed è stata la chiave dei loro rispettivi successi.
Ventiquattro Slam li ha vinti anche Margaret Court Smith, l’australiana oggi proprietaria e capo del Victory Life Centre a Perth, una chiesa di stampo tradizionalista-reazionario, contraria a qualsiasi concessione alla comunità LGBTQ. La tennista di ferro, la chiamavano. Colse un’infinità di titoli nello Slam del proprio Paese, dove molte delle campionesse non andavano. Al momento, Djokovic si è assunto l’incarico di riportare il tennis maschile accanto a quello femminile, intorno a un record che, ammettiamolo, non interessa più che tanto. Aspettiamo però il venticinquesimo Slam, quello che conferirà a Nole la certezza che mai nessuno sia stato pari a lui, tra gli uomini e tra le ragazze. E magari il ventiseiesimo, che ribadirà il concetto ma aggiungerà un livello di sicurezza maggiore circa la possibilità che qualcuno, un giorno, possa superarlo. Ma alla fine, la morale qual è? Ne sorte una risposta da “cavaliere bianco e cavaliere nero”, da recitare con la voce inimitabile del grande Gigi Proietti… Agli anziani der tennis nun je dovete rompe le scatole!
Insieme a un secondo set di buonissima fattura, oltre modo combattuto, tra scambi sempre sudati e qualche volta spettacolari, nel quale il serbo ha avuto spesso il comando del gioco ma non ha evitato quei pochi scivoloni che potevano costargli caro, la finale ha dato la sensazione che il Djokovic di questi Open fosse inattaccabile, sia dagli esponenti della Middle Generation, di cui l’Orso Medvedev (per quanto scombiccherato) è il rappresentante più valido, così come dai bimbi della Next Generation, Alcaraz, Rune, Sinner, Shelton e compagnia incalzante. È apparso lontano, inarrivabile, sempre sul pezzo, addirittura migliorato. Nell’estrarre dal suo gioco di sponda già vicino alla perfezione, quelle iniziative esplosive quanto repentine capaci di frantumare il palleggio altrui. Nel confezionare giocate d’attacco che raramente gli avevo visto fare. E nell’aver dato forma a una stagione più bilanciata nelle scelte e negli impegni, in grado di portarlo ancora fresco agli appuntamenti di fine anno. Negli ultimi tre anni ha vinto sette dei dieci Slam cui ha partecipato, ha fatto finale in altri due (perse con Medvedev e Alcaraz) e una volta si è limitato ad abdicare nei quarti (Roland Garros 2022, battuto da Nadal). Due Slam gli sono stati vietati per non essersi vaccinato contro il Covid. A 36 anni sembra stia vivendo il suo momento migliore. Ma non ci sono Federer e Nadal, si dirà… Il che equivale a dire che non ci sono avversari in grado di superarlo, se non in alcune sparute occasioni. E per i ragazzi smaniosi di rilevare la sua eredità è davvero un brutto colpo.
In solitaria, il Djoker può dunque ripetere ciò che i Fab Four fecero in allegra e spensierata comitiva, smontare le speranze delle nuove generazioni? Alcaraz forse glielo impedirà, ma dovrà crescere, se n’è convinto egli stesso: «In semifinale non ho dato prova di maturità. Nel tie break del primo set ho perso la testa, il secondo set non l’ho giocato. Devo parlarne con il mio team». «L’importante è reinventarsi sempre», sembra quasi rispondergli a distanza il Djoker, «è il segreto dello sport, forse della vita. In questo l’esempio di grandi campioni che ho conosciuto è stato di grande ispirazione. Affronto spesso il tema dei cambiamenti con il mio team, nel gioco, negli allenamenti, ma so bene che a distanza di un anno potrebbero non essere più sufficienti, e allora occorre rimetterci mano e provare altre strade».
Su questo il Djoker ha più di una ragione. È cambiato il tifo dell’Ashe Stadium, per esempio. Due anni fa non fu tenero con lui. Ma è intervenuta una guerra, e con tutto il rispetto per Medvedev, che ha sempre espresso posizioni contrarie all’invasione dell’Ucraina, l’ultima cosa che volevano i newyorker era un russo vincitore del loro torneo. Così, si sono schierati con Nole, da cima a fondo. La prima volta. Utile a superare l’unico momento di incertezza, quando nel secondo set (lungo due ore) Medvedev ha avuto una palla break, poi un set point, disinnescati da Djokovic con due colpi straordinari. «L’ha giocato meglio lui, quel set, ma l’ho vinto io, ed è stato liberatorio. L’autentica svolta del match».
Resta l’ultima domanda… Che cosa vuole ancora Nole, che cosa può placare finalmente la sua smania di essere il migliore di sempre? La sua ansia pesa sul tennis che gioca, la si avverte. C’è qualcosa di eroico e di insopportabile nella catena ininterrotta delle sue vittorie. Qualcosa di struggente e di stupefacente, ma anche d’incomprensibile e di oscuro in questa incontenibile volontà di sentirsi il migliore. Stakanovista della vittoria, un eroe che esorta a chiedersi… Ma chi glielo fa fare? Soldi ne ha a sufficienza per le prossime tre generazioni, il divertimento non è mai sembrato legato ai colpi, alle finezze, quanto alla vittoria, ottenuta in qualsiasi modo. I record? Li ha tutti lui, ma difficilmente entrerà per questo nel cuore della gente, che si tiene stretta a Federer e Nadal, e all’amore per il tennis che da loro prese forma. Però è il più forte.
Solo la conquista del Grande Slam gli è sfuggita. Ecco, quella, forse, lo avrebbe finalmente appagato, gli avrebbe dato qualcosa di così grande che il tennis moderno non ha mai conosciuto. Rod Laver vinse l’ultimo nel 1969, ed eravamo già nel tennis Open. Ma solo agli albori, e si continuava a giocare tre Slam sull’erba e uno sulla terra. Il tennis a tre dimensioni, terra, erba e cemento, non ha mai avuto un riconoscimento così alto, ma il Djoker è quello che ci è andato più vicino.
Spero riesca nell’impresa. Prima o poi. Anzi, più prima che poi. Così, forse, il tennis potrà ripartire, con altri volti e altre storie.
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