La leggerezza di Arnaldi e quel pensierino ad Alcaraz…

È raro constatare come l’estrema sicurezza, quella che dava modo a Ezra Pound di ricordarci che ciò che conta “non è tanto l’idea, ma la capacità di crederci”, possa abitare in un ragazzo così giovane, che a disegnarlo basterebbero quattro segni lasciati da un bambino. Una figurina esile all’apparenza, un cappello che sembra più grande della testa, comodo per tenere insieme i capelli annodati e ribelli, due gambe che sembrano stecchi ma prodigiose per velocità e tenuta. Matteo Arnaldi è tutto da scoprire, ma promette sorprese a chi abbia voglia di farlo. Ha cuore e testa, mezzi fisici che non gli attribuiresti a prima vista, ma tali da porlo al riparo anche dalle prove più lunghe e stressanti. Un sorriso che ti si appiccica addosso e i modi semplici di un ragazzo che non si sente un super eroe della Marvel.

Uno che se gli chiedi come abbia fatto, ti lascia senza parole… Era a Flushing da numero 168 del mondo un anno fa (battuto all’ultimo turno delle qualifiche), è comparso tra i migliori cento appena ad aprile liquidando Casper Ruud a Madrid, e tempo quattro mesi è già nei primi cinquanta (indicato intorno al numero 47). Un po’ se la sentiva, risponde, «ma non so bene il perché, credetemi, non voglio sembrare matto. Lui un po’ lo conoscevo, perché ci siamo allenati insieme, ed è un grande giocatore, solo che io con i mancini mi sono sempre trovato a mio agio, mi stuzzicano il lungo linea e non ho paura di andare a sfidare il loro dritto».

Lui è Cameron Norrie, padre scozzese e madre del Galles, nato a Johannesburg e cresciuto in Nuova Zelanda. Un vero prodotto del Commonwealth. Gli italiani li conosce bene. L’altro Matteo (Berrettini) gli portò via a suon di missili – era il 2019 – la prima finale in carriera, al Queen’s, Musetti l’ha affondato due volte sulla terra rossa, ora Arnaldi, che semplicemente non gli ha permesso di giocare. Un incubo… E stiamo parlando di un giocatore che è stato numero 8 a settembre di un anno fa (dopo gli ottavi agli US Open) e nel 2021 ha vinto il Masters 1000 di Indian Wells, da tutti considerato il quinto Slam.

Certo una lezione (punizione?) del genere non se l’aspettava, il buon Cameron oggi numero 16. E nemmeno che quel ragazzino conosciuto a Montecarlo, potesse con semplicità ribattere ogni sua iniziativa, fino a prendere coraggio e cominciare lui a muovere le pedine del gioco. Del dritto lungo linea ho detto… Micidiale, perché portato con una spallata di grande veemenza, improvvisa, quando gli scambi incrociati si facevano troppo insistenti. Un rovescio rapido, incalzante, sempre esplosivo, che ha pescato punti importanti quando Norrie tentava la strada della rete. La smorzata utilizzata come esca,  anche a costo di qualche errore di troppo. E due aggiunte che non avevamo ancora visto nella santabarbara di Matteo il Giovane: l’attacco sulla seconda palla di servizio, e il lob. Vogliamo parlarne, del pallonetto? Bene, Arnaldi ha firmato primo e secondo set alla stessa maniera, con Norrie proiettato a rete, obbligato dal primo passante a giocare una volée d’appoggio, poi superato da un lob di estrema precisione, impossibile da raggiungere per l’inglese, e sempre indirizzato sulla riga bianca di fondo campo. Prodezze che hanno finito anche per spostare gli equilibri del tifo, trascinando dalla parte di Matteo un bel po’ del pubblico americano.

E tutto con estrema leggerezza, mai dando l’impressione di soffrire, comandando il gioco senza prosopopea, ma con la naturalezza di quelli che ci sanno fare. Una partita perfetta, che scarica Arnaldi nella seconda settimana del torneo, sul campo dei suoi sogni, il Centralone dedicato ad Ashe, e contro l’avversario che sperava di incrociare. Carlos Alcaraz, che ha concesso un set al suo insegnante preferito di golf, l’inglese Daniel Evans, ma ha allungato a tre le vittorie contro di lui. Ovviamente in tre match.

«Confesso, quando ho visto il sorteggio un pensierino ce l’ho fatto», racconta Matteo, nato nella San Remo di Fognini, tutta canzoni e buon tennis. «C’erano avversari duri da battere. Lo era Phil, con cui ho combattuto cinque set e più di quattro ore, e c’era la possibilità di incrociare Norrie. Però mi sono detto di provarci, hai visto mai?».

L’impressione, non solo mia, è che siamo davanti a un ragazzo che saprà sorprendere ancora. Ha tutto per farlo. Ha la testa di chi ama il tennis, il cuore di chi non è abituato a rinunciare. Ha colpi e fisico. Già anche il fisico, che è da lunghe distanze e sopporta magnificamente la fatica. Quando parla di lui, a coach Alessandro Petrone brillano gli occhi. «L’ho visto correre per chilometri sotto la pioggia, nei giorni in cui era impossibile allenarsi sul campo», racconta. Qualità fisiche notate anche da Fognini, «Matteo sa recuperare una palla in spaccata, cosa che ho visto fare solo a Djokovic». E se lo dice lui, ci si può credere.

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