La parola del Direttore

Musetti, vincere è un altro sport

Il trio più scrauso del mondo, trombone, trombetta e grancassa, annidato all’uscita di una delle scale sulla tribuna del Centrale da cui si vede il Parco dei Principi, suona la carica per chiunque si senta di apprezzare il consiglio, ma le note più gettonate sono quelle di Bella Ciao, diventata per vie trasversali la canzone di tutti i popoli oppressi.

Non c’entra granché con Alcaraz e Musetti, di fronte per stabilire se qualcosa sia cambiato dall’unico match che li ha visti di fronte, un anno fa, vinto dal ragazzo di Carrara, che, sì, è stata terra di partigiani, ma più ancora di anarchici.

Anche Alcaraz non ha molto del partigiano che una mattina s’è svegliato e ha trovato l’invasor. Se questo tennis ha un senso l’unico invasore che si conosca è proprio lui. Ma la canzone piace, è amatissima, il pubblico la canta sulle note che aumentano il ritmo quasi prendessero la rincorsa, e la spinta che ne viene è potente, anche perché tra i due, uno che gioca aumentando il ritmo e i tempi degli scambi, fino a renderli impressionanti come i colpi di una batteria in sette ottavi, c’è, esiste, ed è proprio lui. Carlos. Così, Bella Ciao finisce per fare da colonna sonora alla vittoria di un ventenne che continua a invadere il tennis con i suoi colpi esagerati. Ha un senso tutto ciò? Bella Ciao venne rilanciata da “La Casa di Carta”, una serie Netflix spagnola, molto apprezzata. Forse il nesso è questo… Siamo in piena fiction. La Casa di Carlos. Se così fosse, anche Bella Ciao ci potrebbe stare.

Non credo ne sia granché convinto Musetti. Altro che fiction, quelle bordate di Alcaraz erano reali e facevano male, al morale più che mai. Aveva un compito tattico difficile, sia nella tempistica sia nella messa in opera. Doveva ripetere il match che gli dette la vittoria nella finale di Amburgo, dove riuscì ad anestetizzare gli slanci cocciuti di Alcaraz, e preparare in tal modo il terreno per l’avvento del suo tennis ad alto gradiente artistico. Non gli è riuscito, sebbene si sia reso protagonista di molti deliziosi intermezzi, apprezzati dal pubblico e dallo stesso Alcaraz che non se li aspettava. Da quel confronto vinto in Germania a oggi, lo spagnolo ha aggiunto alla velocità degli impatti che trabocca dai propri colpi base, e alla straordinaria capacità di esplorare tutti i punti più lontani e nascosti del campo, sorprendendo in tal modo la gran parte degli avversari, la consistenza di un tennis che riesce a rimediare alle momentanee carenze, quasi fosse in grado di auto-ripararsi da sé. Sempre alle estreme velocità di cui è capace, Alcaraz non è esente da errori, ma quando ne commette uno riesce a disinnescarne gli effetti.

Lorenzo era partito con il giusto afflato, ed è stato suo il primo break dell’incontro, sul primo servizio di Alcaraz. Aveva resistito alla furia spagnola, e con tre smorzate a goccia, millimetriche oltre la rete, aveva costretto il numero uno a sbandare. Ma la replica di Carlos prendeva consistenza già nel quarto game del primo set, quando ha cominciato a scuotere il match con la violenza di uno tsunami. Break e ancora break due giochi dopo… Potete crederci, lì il match aveva già assunto la propria fisionomia, ahimè definitiva.

I tentativi di Musetti, sempre incantevoli, si sono fatti sporadici, i rovesci in lungo linea che all’inizio avevano turbato Alcaraz si sono come rattrappiti, anzi, è stato Carlos, a metterne a segno due dei suoi, quasi spinto dalla necessità di mostrare che anche lui, alla bisogna, sa giocare di prestigio. Nel secondo e nel terzo set il break è giunto nel sesto game, ma il match era ormai saldamente nelle mani di Alcaraz, e non c’era più tempo e modo di cambiarne la sostanza.

«Ho sbagliato molto, forse tutto», dice Musetti, disposto a dirsi le cose in faccia. «Non sono riuscito a mettere in campo ciò che volevo fare, e mi sono abbattuto. Mi è mancata, dentro, quella forza di restare attaccato al match. Non mi sono piaciuto, e nei prossimi giorni voglio capire che cosa sia successo, e come sia stato possibile passare dalla buona prova offerta contro Norrie a quella contro Alcaraz. È una sconfitta che fa male, spero mi permetta di crescere ancora».

Il mondiale su terra rossa si chiude qui per gli italiani, bello e molto partecipato all’inizio, sin troppo mesto nella rapida svolta conclusiva. L’inattesa, improvvida sconfitta di Sinner ha avuto un preoccupante effetto boomerang, non ha procurato agli italiani rimasti in tabellone quel senso di liberazione che spinge ad approfittarne, sembra invece li abbia privati di un punto di riferimento sul quale misurare se stessi (e chissà che Sinner non abbia patito identiche conseguenze dalla forzata sparizione di Berrettini).

La compagnia è valida, forte o “più che forte” nel suo insieme, e composta da giovani e giovanissimi. Passi avanti ci sono e tutti interessanti, l’arrivo di Arnaldi tra i primi cento, la crescita di Zeppieri, gli approdi nei tabelloni principali di ragazzi come Cobolli. Ai piani alti, però, occorre continuare a lavorare su se stessi, sulle scelte di gioco, sulla forza fisica. E forse anche sul “saper vincere”, se è vero (e io non ho dubbi in proposito) l’avvertimento di Adriano Panatta, quando dice… «È importante giocare bene a tennis, ma ricordatevi che vincere… è un altro sport».

Daniele Azzolini

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