Nel mondo del tennis i giorni di off season sono stati quasi interamente dedicati a comprendere se Novak Djokovic, numero 1 del mondo, detentore di tre quarti di slam, vincitore nove volte a Melbourne, sarebbe o no andato in Australia per cercare di diventare il giocatore più vincente di sempre o se la sua riluttanza a vaccinarsi non avrebbe preso il sopravvento.
Djokovic aveva annunciato la sua presenza all’ATP Cup che si gioca in questi giorni a Sydney ma al momento di imbarcarsi ha preferito rinviare ancora la decisione.
Il problema è noto: in Australia non è possibile mettere piede se non si è completato l’intero ciclo vaccinale da almeno 7 giorni e la regola non ammette eccezioni sopra i 12 anni di età. Sono naturalmente previsti dei casi di esenzione ma per motivi strettamente medici. Il problema si è posto perché Novak Djokovic non è un giocatore qualsiasi e quindi si sono mossi gli sherpa per cercare un’improbabile mediazione. Già questo farà arricciare il naso agli idealisti ma siamo tra uomini di mondo, inutile scandalizzarsi.
Djokovic significa un’enorme differenza in termini di ritorno economico, di immagine, e a dirla tutta anche di valore sportivo della competizione australiana, che hai voglia di dire essere al di sopra di chiunque, perché solo di retorica si tratta. Ciononostante non è detto che la trattativa non si areni, in gioco ci sono interessi che non riguardano solo il ristretto mondo del tennis ma la stessa credibilità delle misure governative, in Australia certo, ma le ricadute possono essre problematiche anche altrove. Provvedimenti governativi così restrittivi sono impossibili senza un sostegno ampio dei destinatari e l’opinione pubblica è per sua natura mutevole, potrebbe prendere molto male l’idea che per combattere il COVID si debbano fare sacrifici solo se non hai il decimo titolo dell’Australian Open in ballo.
A parte queste considerazioni che travalicano l’angusto spazio tennistico è impossibile non provare a chiedersi quali sarebbero mai i potenziali rischi se un giocatore di tennis scendesse in campo da non vaccinato. Cosa mai potrebbe succedere? Djokovic – o chiunque altro – farebbe sicuramente il tampone – peraltro obbligatorio anche per i vaccinati – e avrebbe poche possibilità in più di infettarsi rispetto ad un vaccinato, a dar retta agli ultimi dati. La sua attenzione per il rispetto dei protocolli non diminuirebbe, anzi c’è da scommettere che sarebbe decisamente più attento a non stare troppo vicino a qualcuno e a indossare la mascherina se proprio non può evitarlo. E una volta in campo il giocatore di tennis non è mai a contatto con nessuno, se si eccettua uno sporadicissimo e in genere rapidissimo scambio a rete. Il SARS-CoV2 dovrebbe zompare da una pallina toccata da un raccattapalle infetto, resistere alle sollecitazioni e quindi invadere il corpo del tennista, che si trasformerebbe quindi in untore oppure, da non vaccinato, sviluppare una forma particolarmente grave di COVID19. Percorso francamente sconosciuto a qualsiasi ipotesi di ricerca.
Piuttosto quindi di strillare per ottenere il misero gaudio provocato dal mal comune sarebbe forse più serio, osiamo dire più civile, cominciare a porsi domande sulla sensatezza di una serie di provvedimenti estesi erga omnes quando già sarebbe lecito dubitar dell’efficacia anche in contesti più ristretti, anche se di nuovo rischiamo di travalicare i nostri umili confini tennistici. Certo è che Djokovic o non Djokovic il recupero di un minimo di ragionevolezza, se proprio la razionalità è obiettivo troppo ambizioso, dovrebbe essere un obiettivo di tutti, ancora una volta a prescindere dal tennis. Per questo vedere Novak Djokovic nella Rod Laver Arena sarebbe un successo, per chiunque tifiate.
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