Manolo Santana e la generazione dei raccattapalle

Era nato accanto al tennis, dall’altra parte del muro. Scoprire che cosa accadesse là dietro, oltre quella barriera dalla quale provenivano risa, battimani e palline bianche che finivano per somigliare a regali portati dal vento, fu prima il gioco di un bambino, poi la curiosità di un adolescente, infine un progetto di vita.

Non fu il tennis il primo amore, né le eleganti chemises che issavano un minuscolo coccodrillo all’altezza del cuore. Piuttosto le Rolls che sostavano alle porte del Velazquez, il club più esclusivo a Madrid. Belle da impazzire, la statuetta alata sul cofano che sembrava di argento vivo. Grandi più della sua casa che al confronto ricordava un ripostiglio. Era colpito dalle donne che da quelle vetture scendevano, talmente disinvolte e sicure da costringerlo a chiedersi se fossero più belle le auto, o il contenuto, con l’esuberanza rockabilly delle più giovani, che non sembravano nemmeno spagnole, ma americane, come le pin up che aveva visto sui magazine dal barbiere.

Aveva 16 anni Manuel Martinez Santana, era il 1954. Madrid provava a vivere, dopo gli anni dell’isolazionismo. A Manolo, o Manolìn – così lo chiamavano in Calle Lope de Rueda – sarebbe bastato sopravvivere. Il padre si era spento quell’anno, c’era una famiglia cui pensare. Era questo il compito che attendeva Manolìn e il fratello Braulio, e poco importava quanto fossero giovani. Ma i lavoretti che avevano svolto fino allora, dopo aver rinunciato alla scuola, non sarebbero bastati. Serviva di più, un atto di coraggio. Serviva passare dall’altra parte del muro.

         Divenne tennista, ma questo lo sanno tutti. Tennista per caso, però. Emulo senza saperlo di Jean Maurice Cocteau, lo scrittore, l’attore, il drammaturgo che in quegli anni faceva impazzire la vicina Francia. “Aspettare la propria sorte, aspettare la morte… Cominciamo a non aspettarle”, recitava nel suo Il Gallo e l’Arlecchino. Manolo e Braulio fecero lo stesso, non aspettarono. Ammesso che le ristrettezze economiche fossero un motivo più che sufficiente per impugnare una racchetta, i giovani Santana ne avrebbero potuti contare altri mille per convincersi che non farlo sarebbe stata la scelta peggiore. Trovarono il coraggio di saltare quel muro e di fare ingresso nel mondo dei ricchi, sperando che nessuno si accorgesse di loro. Fosse andata bene, lo avrebbero rifatto il giorno dopo. E poi ancora. E ancora… Fino a confondersi con gli altri inservienti e condividere le stesse mance, così ricche che mamma Mercedes avrebbe smesso di preoccuparsi. Il primo fu Braulio, di poco più grande. Ma un giorno fu la mamma, che non sapeva esattamente cosa facessero i due, a dare a Manolo una buona scusa per provarci. Porta il bocadillo a tuo fratello, gli disse. Il panino che aveva dimenticato. E anche Manolìn si ritrovò finalmente dall’altra parte.

         Se quello era il piano, Manolo e il fratello si mostrarono i felici interpreti dello spirito dei tempi. L’urgenza dettata dalla necessità diventava sprone a scrivere da sé le pagine della propria storia. Stava accadendo qualcosa del genere in molti settori di una Spagna che troppo a lungo si era nascosta dietro la triade “Trono, Spada e Altare”, la Monarchia, l’Esercito, la Chiesa, per essere al passo con il resto dell’Europa appena uscita dalla guerra e già impegnata nella ricostruzione. Non era in discussione il franchismo, non ancora, ma le contraddizioni che la guida reazionaria dei militari, priva della spinta ideologica che sostenne gli altri governi fascisti in Europa, aveva coltivato trasformando la Spagna in un Paese senza speranza. Ora, quel Paese troppo a lungo ammutolito intendeva rialzare la testa.

Dietro il muro Manolo trovò la sua speranza, e un lavoro da raccattapalle. Si costruì da solo una racchetta. L’idea gli venne dal fondo di una sedia gettata via. Il sostegno sotto il cuscino era un ovale in legno. Manolo ci mise il manico, le corde e si presentò al circolo con quell’attrezzo infernale. Trovò anche un ricco signore, Romero Giron si chiamava, che lo prese a ben volere. Lo vide armeggiare con quella strana racchetta, dalla quale ricavava colpi che altri non osavano nemmeno immaginare. Ho scoperto un campione, si disse, e ci volle parlare. Era una famiglia ricchissima quella dei Giron, legata alla terra, ai tori. Il señor Romero lo fece studiare e giocare, permettendogli di palleggiare con i bimbi più ricchi, e impegnandosi a sostenere tutta la famiglia Santana.

         Consentiteci una pausa, a questo punto del racconto. E una breve riflessione, per non dare l’impressione che la storia del tennis sia un insieme di aneddoti da unire con il trattino, come in un gioco da settimana enigmistica. A suo modo, la vicenda di Manuel Manolo Manolìn Santana si allinea a quella di altri giocatori che negli stessi anni dettero vita alla prima congrega di umili con la racchetta. Un ristretto gruppo di ragazzi provenienti da classi ben lontane dall’aver mai considerato il nostro sport come un ascensore sociale, ma che forse annunciava meglio di altri eventi i prossimi cambiamenti cui sarebbe andato incontro. Nato come gioco dei Re, il tennis fu l’unico sport realmente concupito dalle formazioni socio-economiche che via via dettero la scalata al potere. Divenne il gioco dell’alta borghesia che spodestò la nobiltà dalle terre avite, ai primi del Novecento si trasferì saldamente nelle mani della borghesia delle banche e delle industrie, prima della svolta finale, quella di rendere il tennis uno sport di massa, giunta con la decisione di avviare un’esperienza professionistica globale, l’Era Open.

         Giusto chiedersi se Santana e gli altri contribuirono a velocizzare certi passaggi della storia, ognuno per il proprio modo di essere e di fare.   Bobby Riggs, che imparò a scommettere da bambino per sopravvivere, Tiriac che intratteneva i soci del Parioli frantumando a morsi i bicchieri, Nastase che si allenava a colpire la palla con il manico, e Pancho Gonzalez che truccava i motori delle auto per rivenderle a prezzo maggiorato. Certo, da una filiera così stramba eppure eccelsa nelle doti tecniche nacque un tennis che con umiltà teneva in modo particolare a che lo spettacolo valesse il prezzo del biglietto. Fu, quello, un punto di onore per tutto “il tennis dei raccattapalle”, come finì per chiamarsi l’insolito movimento. Vi fecero parte, in epoche diverse, Arthur Ashe e Pancho Segura, i nostri azzurri della Davis, con Zugarelli in testa («Vivevo in una casa con il tetto di lamiera», ha scritto nel suo libro), lo fu per un breve periodo anche Agassi.

         La storia di Manolo Santana – spentosi sabato 11 dicembre a 83 anni, da tempo malato di Parkinson – è sempre stata di moda, in Spagna. È lì a dimostrare che c’è spazio per tutti, anche quando gli obiettivi sembrano troppo alti. «Niente è proibito, ma bisogna procedere un passo alla volta», diceva. Lui lo faceva con animo gioviale, da uomo naturalmente incline al sorriso.

         Nel suo palmarès c’è di tutto, tranne la Davis. C’è persino l’invenzione di un colpo che a lui veniva naturale, il pallonetto liftato, ma che pochissimi hanno saputo imitare. «Lo vedo sempre di meno, sui campi. Come altri colpi, del resto. Dipende dalle nuove impugnature, ma anche dalla velocità che ha raggiunto il gioco». Il lob liftato di Santana fu la trasformazione in chiave offensiva di un colpo nato come ultima possibile difesa. La palla saliva, ma nel farlo girava vorticosamente su se stessa, e quando toccava terra schizzava come una spia. Del resto, Manolo con il diritto ci faceva tutto, era la chiave del suo gioco e delle sue imprese.

         Nelle classifiche mondiali, tra il 1961 e il 1968, fu sempre nei primi 10, con un primo posto nel 1966. Al Roland Garros, vinto in due occasioni, ebbe un unico avversario, Pietrangeli. Nel 1961 Manolo superò nei quarti Emerson, poi Laver in semifinale (36 62 46 64 60). Contro Nicola, in finale, fu battaglia aspra e come con Laver, Santana si trovò in svantaggio 2 set a 1, per poi recuperare in forcing: 46 61 36 60 62. Manolo tornò a vincere nel 1964 battendo Hewitt, Barnes e Darmon prima di superare ancora Pietrangeli per 63 61 46 75.

         A Forest Hills, invece, il successo gli arrise nel 1965. Riessen negli ottavi, Palafox nei quarti, Ashe in semifinale (26 64 62 64), per ultimo Drysdale, battuto 62 79 75 61. In patria venne accolto con tutti gli onori, e Francisco Franco gli conferì il titolo di “Illustrissimo”. A Wimbledon trionfò nel 1966. Superato Fletcher nei quarti, Manolo respinse al quinto Davidson poi liquidò (64 119 64) Ralston.                 

         Non arrivò la Davis, invece. La vecchia Coppa è sempre rimasta il sogno di Manolo, divenuto poi capitano della squadra. «È un torneo speciale, dove il tennis si trasforma sommandosi a fattori che nel gioco moderno contano sempre meno: la nazione, l’amicizia con i compagni, talvolta con gli avversari. È vero, la Coppa mi manca». Chiuse la carriera proprio in Davis, e contro l’Italia. A Torino, nel 1973, si trovò di fronte un ragazzino di provincia, nato raccattapalle come lui. Ma Santana aveva 35 anni, era quasi in pensione, e l’altro, Corrado Barazzutti, era capace di restare in campo sei ore filate. Il tennis stava cambiando. I ragazzini erano veri professionisti.

         Lui, Manolo, rimase sempre innamorato della terra rossa. Fu sul mattone tritato che costruì vittorie e amicizie. Anche quella con Nicola Pietrangeli, l’amico più caro, che oggi ne piange la scomparsa, «è come aver perso un fratello». Ottenuto il punto della vittoria, nella finale del 1961, Santana evitò di saltare la rete. Ci passò sotto, quasi umile, e si abbandonò in lacrime tra le braccia di Nicola.

         «Ma quelli erano altri tempi», raccontava.

         Ed era anche un altro tennis.

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