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Thieme e Zverev, l’occasione mancata

Tanto per esser chiari e evitare fraintendimenti iniziali apriamo la borsa delle frasi fatte e sbolognamo una bella premessa.

Dei “se” e dei “ma” son piene le fosse. Gli assenti hanno sempre torto. Se mi’ nonno aveva tre palle era un flipper.

Detto ciò, alla luce della finale di questo sbiadito e silenzioso (fatta eccezione forse per il “rumore” creato dall’esclusione di Djokovic in seguito alla famosa pallata) US Open, la mente non può non vagare in direzione di vari pensieri e perdersi in meandri di domande che sì non troveranno risposte, ma che lasceranno sicuramente molti dubbi.

Quello di ieri sera era davvero il miglior spettacolo che il tennis odierno (o futuro) potesse offrire? La nuova generazione è davvero questo? Ci fosse stato uno dei tre mostri sacri di là dalla rete come sarebbe andata? E ancora: questi nuovi “giovani” (ricordiamo che Thiem ha 27 anni eh) sono davvero pronti a soppiantare l’ancien régime?

Tutte domande che se avessimo assistito a un altro tipo di partita probabilmente avrebbero risposte ben definite.

Invece quella a cui abbiamo assistito è stata più una “non-partita”, dove a turno i due hanno smesso di giocare o hanno usufruito dei momenti di vacanza dell’impaurito e attanagliato avversario, finendo per dare vita a una finale da ciapanò come poche se ne erano viste. La sensazione, considerando anche gli acciacchi fisici finali, è che, non ci fosse stato il tie break conclusivo, i due sarebbero andati avanti a perdere servizi fino a un’invocata (perfino dal pubblico fantasma assente) invasione di draghi con relativo e misericordioso “Drakaris” finale.

Per carità, ci si può tranquillamente appigliare al fatto che Zverev fosse alla prima finale, ma i veri campioni queste occasioni dovrebbero coglierle al volo. Se non ti bastano due set di vantaggio, un avversario ancora in hotel e il fatto di servire per il match dopo aver recuperato un break con l’altro di nuovo sotto la doccia, beh, amico mio, fatti due domandine… Dall’altra parte invece ti trovi Thiem, uno che alla quarta finale fa di tutto per perdere anche questa e alla fine vince più per suicidio tedesco che per merito proprio. Uno che poi ti nominano “Dominator”, e la folla sghignazza… L’idea finale è che uno dei due abbia vinto proprio perché la coppa a qualcuno la dovevano dare… Guardando il risultato qualcuno potrebbe pensare a un “match epico”. Beh, la prossima volta, magari. Fatto sta che se questo dovesse essere lo “spettacolo” che ci attende per il dopo “Fedaldjo”, stiamo messi maluccio…

La sostanza che resta in bocca degli addetti ai lavori alla fine è sempre la stessa. Non ce ne vogliano i tifosi dei finalisti, ma la sensazione che con uno fra Nole, Rafa e in fondo anche Federer (sebbene ultimamente le sue presenze in finale risultino ben più di insperabili) avremmo assistito a un monologo del “vecchietto” di turno è molto molto forte. E porta (purtroppo, a onor del vero) a chiedersi se questa finale non sia l’ennesima dimostrazione non solo del fatto (come se ci fosse bisogno di ripeterlo) che i tre di cui sopra siano fenomeni assoluti di due spanne superiori ma anche di come le generazioni successive (ormai tre, se “ci giochiamo” pure questa) siano state una relativa mandria di ottimi giocatori e nulla più, tralasciando appellativi peggiori.

D’altra parte i numeri, che non mentono mai, dicono che dal 2006 a oggi solo i seguenti “invitati a sorpresa” sono stati in grado di interrompere il dominio dei (“fu”) Fab-4:

–       Stan-The-Man Wawrinka, ovvero uno della stessa generazione di Nole e Rafa;

–       Cilic, in un torneo dove non si sa come si era travestito da miglior Safin della storia;

–       Del Potro, colui che molti continuano ad oggi a rimpiangere come il vero possibile, ipotetico nuovo (allora) antagonista della generazione d’oro, prima di rompersi ogni cosa.

E parliamo comunque di tre giocatori nati prima del 1989… Quelli dopo? Desaparecidos o quasi…

Stavolta, quando la nuova generazione era finalmente portata a battere un colpo e farci scordare i dominatori degli ultimi anni, siamo nuovamente a chiederci se questa finale fosse solo un fuoco di paglia e nulla più.

Magari già da Parigi la musica sarà diversa. Ma sfidiamo chiunque a non pensare che i violinisti saranno nuovamente gli stessi degli ultimi anni, visto il gioco espresso nella finale di Flushing Meadows. E se questi nuovi giovani non impareranno a capire cosa voglia dire non “vincere”, ma “voler vincere”, alla fine l’idea che loro alzeranno coppe solo perché quei tre avranno appeso le scarpe non ce la toglierà nessuno.

Davide Bencini

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Davide Bencini
Tags: US Open

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