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14 Apr 2020 15:24 - La parola del Direttore
Titanic, 108 anni fa: era la nave dei tennisti
di Daniele Azzolini
«Ci siamo messi gli abiti migliori
e affonderemo come gentiluomini»
(Benjamin Guggenheim, imprenditore,
padre di Peggy e Solomon collezionisti d’arte,
affondò con il Titanic in smoking, seduto
su una poltrona e fumando un sigaro)
Da quante ore era in acqua? Due, forse tre. Ma anche di più. Un’infinità di ore. Facce livide di persone sconosciute galleggiavano intorno a lui, inerti e silenziose sulla superficie appena crespa di un mare infinito. Sembrava si cercassero quei corpi privi di vita, rimbalzando docilmente al contatto e procedendo poi verso altre derive, a stabilire nuovi, momentanei legami, quasi si stessero salutando un’ultima volta. Occhi vitrei, inespressivi, sbarrati, la fine li aveva voluti in posa per l’ultima istantanea. Occhi rivolti verso un cielo grande e pieno di stelle come non aveva mai visto.
L’enorme scafo, prima ripiegato sul lato destro, aveva innalzato d’improvviso i fianchi in un ultimo anelito di vita, l’estrema ribellione a quella fine inconcepibile. L’aveva visto rompersi in due e mostrare osceno alla luna i lombi d’acciaio scoperti e indifesi, l’elica poderosa al centro, le altre più piccole poco discoste, per poi desistere in quello sforzo inutile e lasciarsi andare, ormai vinto, e scivolare veloce e dritto nell’acqua nera emettendo un suono simile a un sospiro straziante e prolungato. L’ultima preghiera prima di scomparire.
Quando il quarto fumaiolo si era spezzato, precipitando in acqua e sulle persone, sollevando un’onda gigantesca, gli era parso che l’acqua d’improvviso si fosse materializzata e lo avesse portato via. Un’enorme mano liquida lo aveva strappato alla nave e a suo padre, spingendolo lontano. Era caduto. L’impatto gli aveva mozzato il fiato. Adesso era lì, nella più stupida delle tenute, in smoking e farfallino bianco, le scarpe nere e lucide, testimone di quegli ultimi istanti della tragedia, immerso in una coltre bagnata e gelida che lo stava serrando, e alla quale avrebbe volentieri ceduto, annullandosi nel torpore che stava prendendo possesso del suo corpo, dei suoi pensieri.
Alla morte si pensa quando è lontana, non quando ti sta lentamente avvolgendo di ghiaccio e di paura. Si sentiva solo, era questa l’unica sensazione. Aveva visto il padre Charles schiacciato dal fumaiolo, e degli amici non c’era più traccia. Si teneva avvinghiato al bordo di una scialuppa già troppo carica di volti disperati. Non fosse stato per quelle sue mani ribelli, risolute, ancora partecipi della vita, aggrappate a una speranza che lui ormai non condivideva… Non fosse stato per loro, anche lui si sarebbe lasciato andare. Erano mani forti. Mani da tennista.
Alla sparizione dello scafo nelle viscere di quel mondo liquido e nero, era subentrata una calma silenziosa, quasi gli uomini, le stesse divinità del mare, avessero bisogno di tempo per prendere atto e contemplare l’immensità del disastro. Erano trascorsi lunghi minuti prima che le voci dei vivi prendessero a chiamare i nomi dei dispersi. Poi anche quel drammatico, piangente appello era svanito, sostituito dai lamenti, dalle preghiere e dalle maledizioni. Fu quando quelle sue stesse mani coraggiose stavano per cedere, che qualcosa lo toccò. Una prima volta, e poi una seconda, con più forza. Sollevò la testa, quasi infastidito. Udì delle voci. Aprì gli occhi, e lo sforzo fu feroce. Vide la linea rossa di un’imbarcazione che incombeva su di lui. Poi si sentì scuotere, strattonare, afferrare, sollevare. Il volto di un uomo gli stava dicendo qualcosa. Aveva modi bruschi, due occhi giovani e la barba rossa.
Era la notte fra il 14 e il 15 aprile del 1912. La notte del disastro. La città galleggiante era affondata. Scomparsa per sempre. Richard Norris Williams aveva 21 anni. Tornava negli Stati Uniti con il padre Charles Duane, avvocato a Ginevra, per iscriversi ad Harward. Giocava bene a tennis, lo consideravano una grande promessa. Quando fu issato sulla motonave Carpathia, giunta in soccorso dei superstiti alle prime luci dell’alba, il medico chirurgo Vittorio Risicato gli parlò schiettamente. «Vuoi vivere? Devo amputare le gambe». Erano state più di sei ore nel gelo. «Non lo faccia. Preferisco morire», rispose Richard, con un filo di voce, prima di svenire.
Il marconista sulla sua torre, le lunghe dita celesti nell’aria
trasmetteva saluti e speranze per questa crociera straordinaria
(Titanic, Francesco De Gregori)
Fu un amore a nove colonne quello fra Karl Behr ed Helen Newsom. Nei giorni del ritorno a New York della motonave Carpathia, con il suo carico dolente di 705 sopravvissuti all’inabissamento del Titanic, i giornali dettero spazio alla loro storia, alternandola alle pagine sulla tragedia, quasi fosse un rifugio in grado di attutire, per pochi attimi, tutto quel dolore. Senza che potessero lontanamente immaginarlo, i due vennero elevati a simbolo. Rappresentavano la vita che si oppone alla tragedia, un raggio di sole fra le lacrime. Divennero famosi senza saperlo. Quando la nave giunse al molo della Cunard Line, alle 9,30 del 18 aprile, accolta dalla musica di cento bande e da migliaia di fazzoletti bianchi agitati dalle signore, Karl ed Helen si accorsero che molti erano lì per loro, gridavano il loro nome e volevano conoscerli. Il Carpathia riportava a casa 705 superstiti, il ricordo di oltre 1500 persone che non ce l’avevano fatta, e una storia d’amore.
Pochi mesi dopo, nel marzo del 1913, l’intera città partecipò al loro matrimonio nella Chiesa della Trasfigurazione. Tutti si sentirono invitati. A inserire fra i suoi dispacci il racconto dei due innamorati fu Harold Thomas Cottam, il marconista del Carpathia. Poche righe al giorno, ricavate dai racconti che si inseguivano sulla nave, dalle confidenze di chi sembrava saperne di più. Tutti sul Carpathia conoscevano la storia di quell’amore un tempo contrastato, infine sbocciato nel giorno della tragedia. Se n’erano impossessati, unico lenimento di giornate tanto infelici. Cottam lo aveva trasformato in un feuilleton a puntate, che i quotidiani ampliarono molto romanzando, ma sempre nel rispetto di una vicenda che colpiva l’immaginazione ben più di qualsiasi racconto di fantasia.
Un nome ormai dimenticato, quello di Cottam. In realtà uno degli eroi di quelle giornate. Fu lui a svegliare di notte il capitano Rostron per mostrargli il messaggio di soccorso ricevuto dal Titanic, e lo fece contro il parere e le minacce degli ufficiali al comando notturno del Carpathia. Non avesse insistito, la fine del Titanic avrebbe portato con sé 2223 vittime, e non vi sarebbero stati superstiti.
La cosa più bella del nostro amore è che esso
cammina sull’acqua e non affonda.
(Nizar Qabbani, poeta siriano)
Quando si conobbero, Karl aveva 26 anni, Helen appena 18. Era grande amica della sorella di quel biondino dallo sguardo magnetico, che tanto la colpì quando le venne presentato durante una giornata trascorsa a casa Behr. Scoprì che tutti lo conoscevano, il ragazzo prodigio. Tennista di grandi doti e studente di successo, destinato a una carriera da manager in una delle imprese di famiglia.
I Behr rappresentavano la punta di diamante della ricca borghesia di New York, avevano tutto, bastava schioccassero le dita. Una famiglia di origini tedesche che si era fatta conoscere nel settore dell’import-export, continuando a dialogare con l’Europa e dilagando poi in molteplici attività, dalla produzione dell’Adamant, un abrasivo confezionato in Austria, alle attività minerarie in Brasile, dai mobili in legno lavorati in Svizzera alla partecipazione nelle grandi acciaierie tedesche…
I Newsom appartenevano invece alla piccola nobiltà terriera inglese, giunta in America per dare soccorso alle proprie finanze ormai smagrite, ma avevano parentele nella corte reale e la convinzione che per gente come loro, il mondo avrebbe avuto sempre un occhio di riguardo.
I due s’innamorarono guardandosi negli occhi, sin dal primo momento. Lui era un tipo speciale, finalista in doppio a Wimbledon, finalista All Comers ai National Championships americani in singolare (in pratica, la sfida che decideva chi dovesse misurarsi con il vincitore dell’anno precedente), spesso convocato per la Davis, sebbene in campo vi fosse andato una sola volta, finendo battuto dai terribili australasiatici Wilding e Brooke, cui ebbe il merito di rendere dura la vita perdendo in cinque set dal primo e in quattro dal secondo. Ne parlavano come di un tipo tosto, uno di quelli che non si fermava davanti al primo ostacolo.
Emozionata, Helen lo presentò in fretta alla madre, Sarah Beckwith Newsom, e fu un disastro. Aveva altri progetti, la signora, e la possibilità che la sua nobile famiglia finisse imparentata con dei comuni borghesi, seppure ricchi, be’, molto ricchi in effetti, avrebbe messo a dura prova le sue radicate convinzioni classiste.
Basta visite, basta inviti, il no a tutta la gamma di possibilità che offre un normale corteggiamento fu ampio e senza appello. Ma i due continuarono a vedersi, in una controffensiva di sotterfugi e piccole bugie che la signora Sarah scoprì presto. «È giunto il momento di un viaggio in Europa, dai nostri parenti, prima in Portogallo, poi in Inghilterra», fu il comunicato materno. Un anno di lontananza avrebbe chiuso le porte a qualsiasi sospiro d’amore.
Quando Karl seppe che Helen avrebbe affrontato presto la traversata oceanica, in direzione di Gibilterra prima, poi di Tunisi, per approdare infine a Nizza, allestì in breve il suo piano di battaglia. Convinse il padre, Herman, che sarebbe stato utile un suo viaggio in Austria, a Vienna, per regolare certe questioni da tempo sul tavolo. Non così urgenti, ma delicate, e tali da permettergli di presentarle al genitore come imprescindibili. Helen lo aveva messo al corrente dei termini precisi del viaggio: date, costi, scali… E lui aveva subito acquistato il biglietto per una cabina di prima classe sulla motonave Cedric. Helen e la madre, con il patrigno, mister Beckwith, avrebbero viaggiato in compagnia di amici, i Kimball, Mr. Edwin e Mrs. Gertrude, di Newton, Massachussets. Quando Karl apparve sul molo, preceduto da un evasivo «Ma che piacere, anche voi qui?», le braccia robuste di Mrs. Gertrude riuscirono a evitare che la signora Sarah stramazzasse sulla banchina.
Essere immaturi significa essere perfetti
(Oscar Wilde)
Prima tappa a Funchal, Madeira. Solo poche ore. I due ragazzi chiesero di visitare il posto, Karl recitò le frasi di circostanza messe a punto con Helen, il clou della recita prevedeva – la mano sul cuore – una promessa di massima serietà sin troppo teatrale, ma fece breccia e i due ragazzi vennero sbarcati con la raccomandazione di fare rientro per le quattro del pomeriggio, ché la nave non avrebbe atteso nessuno. Finalmente soli i due finirono per dimenticarsi di tutto e di tutti. Tornarono arruffati e trafelati al molo, con trenta minuti buoni di ritardo, accolti dalle occhiate di disgusto della signora Sarah, ma anche dall’applauso ironico, eppure affettuoso e partecipe dei passeggeri del Cedric, schierati sui ponti della nave. La furia rabbiosa di Mrs. Beckwith si annunciava spettacolare, nessuno se la voleva perdere.
A Gibilterra i due fecero i bravi. Rilassata, la signora Sarah era convinta che il previsto cambio della nave avrebbe finalmente diviso i due innamorati. I signori Beckwith con i loro amici, i Kimball, avrebbero infatti proseguito sul Britannia, una motonave più piccola della Cedric, che navigava sulle rotte oceaniche per poi trasformarsi in nave da crociera all’imbocco del Mediterraneo. Aveva appena 50 cabine di prima classe, tre a disposizione dei Newsom Beckwitt e una, discosta dalle altre, prenotata da un certo mister Herman Howell. Ancora lui, Karl Behr, sotto mentite spoglie. Aveva prenotato con il nome del padre e il cognome della madre. Quando Mrs. Beckwith se ne avvide, fu colta da uno spasmo incontrollato e si ricoprì di puntini rossi su tutto il volto.
Karl ed Helen avrebbero proseguito insieme per Tunisi, quindi Barcellona, poi Nizza. Lì si sarebbero dovuti dividere per forza. L’accordo era di sentirsi giornalmente, lasciando messaggi sotto falso nome nei rispettivi alberghi. Karl l’avrebbe cercata come Madame Douceur, lei lo avrebbe corrisposto come mister Worple, il nome della strada di Wimbledon dove sorgeva il primo All England Tennis Club.
L’addio a Helen fu più di una promessa. Lei sarebbe andata in Portogallo, poi in Inghilterra, ma sempre tenendosi in contatto. Lui a Roma poi a Venezia, di lì in Svizzera e infine a Vienna. In Austria Karl scoprì che in Europa molti si ricordavano di lui, per quella finale di doppio a Wimbledon del 1907. Alla sede della sua azienda, a Vienna, lo chiamavano campione, quasi fosse un titolo nobiliare.
Prima le donne e poi i bambini! E siate inglesi
(Edward John Smith, comandante del Titanic)
Fu a Vienna che Karl ricevette l’ultimo messaggio di Helen, come al solito dettagliatissimo. Lei era a Londra, e spiegava che sarebbe partita dal molo di Southampton a bordo del Titanic, il transatlantico di cui tutto il mondo favoleggiava, la prima grande “città sul mare”. Lui, Karl, poteva raggiungerla a Cherbourg, in Francia, all’imbocco della Manica, dove la nave avrebbe fatto l’unica sosta prima di affrontare l’oceano. Karl fece i bagagli quella stessa giornata e salì sul primo treno per la Francia.
Lo sconforto della signora Sarah nel ritrovarsi Karl fra i piedi per la terza volta, in quel viaggio che doveva servire ad allontanare Helen da ciò che lei considerava una sciocca infatuazione giovanile, fu talmente devastante da condurla sull’orlo della depressione. Gli inseguimenti, i sotterfugi dei due, ripresero implacabili. Fu la grande tragedia a causare la svolta finale alla storia.
La sera dell’impatto con l’iceberg i due si erano rifugiati sul ponte coperto, dopo la cena al ristorante À La Carte e una noiosissima mostra canina vinta dal terribile carlino Gamyn de Pycombe. Ma Mrs. Sarah Newsom, con il secondo marito al seguito, mister Richard Beckwith, li aveva rintracciati subito. Quando udirono il suono della campana dal ponte di comando, e di lì a poco il tonfo sordo dell’impatto con la massa di ghiaccio, erano sul lato sinistro del ponte, a non più di sessanta metri dalle scialuppe. Si diressero subito in quella zona, c’era grande agitazione fra i marinai, si capiva che fosse accaduto qualcosa di grave. Decisero di fermarsi vicini alle scialuppe, nel caso le avessero calate in mare vi sarebbero saliti per primi.
Così fu. La prima scialuppa fu calata a mezzanotte e venticinque, poco più di quaranta minuti dopo l’impatto. Era la numero cinque, e Karl, Helen e i familiari salirono su di essa, l’unica ad accettare uomini e donne insieme, prima che giungesse l’ordine di dare la precedenza alle donne e ai bambini… Sulla “numero cinque” salirono in trentatré, metà di quelli che vi sarebbero potuti entrare. Solo passeggeri di prima classe. Lo spirito classista degli inglesi valeva anche per le operazioni di salvataggio. I marinai consegnarono coperte e razioni d’acqua, e due di loro si misero al comando dell’imbarcazione. Erano tutti convinti, chissà perché, che i soccorsi sarebbero giunti presto. Restarono più di quattro ore sulla lancia, prima di avvistare il Carpathia.
Karl si sedette di fianco a Helen e la strinse fra le braccia, per riscaldarla. La madre lanciò occhiate di fuoco alla figlia, ma su tutto gravava il peso di un dramma in divenire, non ancora percepito in tutta la sua gravità. Fu lì che Karl si sentì libero di agire, di superare ogni etichetta, d’improvvisare persino, a tu per tu con un mare colorato di nero, su una scialuppa di salvataggio che prendeva il largo fuggendo da una nave inaffondabile che stava invece per inabissarsi e portare con sé centinaia di uomini e donne.
«Feci il matto», raccontò, una volta. S’inginocchiò davanti alla sua Helen, sui legni della scialuppa, congiunse le mani come se stesse pregando. La guardò negli occhi, sentendo di aver catturato l’attenzione stupita di tutti quanti. Parlò di getto… «Helen, sai che cosa provo per te, e credo che i miei sentimenti non ti lascino indifferente. Te lo dico qui, ora, in questa notte di tragedia, nella quale il mondo sembra essersi rovesciato. Concediamoci una speranza, noi possiamo ancora farlo. Ti amo profondamente, lo sai. Ti chiedo di sposarmi».
Gli uomini e le donne della scialuppa applaudirono, tutti insieme, a lungo, mentre c’era chi si allungava verso Karl per battergli una mano sulla spalla. Gli dicevano «bravo, così si fa» e le signore apparivano commosse. Si creò una situazione quasi irreale, che finì per dimostrarsi più forte di qualsiasi etichetta. Si fosse opposta, la madre di Helen si sarebbe trovata sola contro tutti. Fu costretta ad accettare, in nome di quella stessa etichetta che Karl era riuscito ad aggirare con la mossa più spregiudicata, nell’ora più buia.
Devi promettere che sopravvivrai,
che non ti arrenderai qualunque cosa accada
Leonardo Di Caprio, nel film Titanic
si rivolge così a Rose prima di morire
Karl ed Helen ebbero tre figli, lui giocò ancora a tennis, ma senza vincere più niente di importante. Divenne presidente del colosso Goodyear, entrò in politica, si presentò alle elezioni per la carica di governatore dell’Alaska, fu uomo d’affari fra i più importanti e diresse numerose grandi aziende. Fu grande amico di Richard Norris Williams. Si conobbero sul Carpathia. Quando il dottor Risicato decise di non amputare le gambe al giovane tennista, colpito dalla forza del suo carattere, Karl si prestò a fargli da aiutante di sostegno. Lo accompagnò nei primi passi, lo sostenne nella ripresa, e non appena fu possibile lo riportò su un campo da tennis. Nei mesi successivi alla tragedia, Richard Norris Williams fu già in grado di vincere il primo titolo nello Slam, gli Us National di doppio misto, fianco a Mary Browne. Era un campione e finì per vincere moltissimo, due National Championships in singolare (1914 e 1916, finalista nel 1913) e tre Slam in doppio, due nel torneo di casa e uno a Wimbledon (1920). Vinse cinque volte la Davis e l’oro nel misto ai Giochi di Parigi del 1924 e fu nella Top Ten del tennis per otto stagioni. Nell’edizione 1914 dei National i due amici si trovarono di fronte, nei quarti di finale. Williams vinse facile. Behr lo abbracciò commosso, forse immaginando quali vette avrebbe raggiunto il giovane amico, con quel tennis facile e aggressivo che giocava con grande ispirazione. «Siamo persone speciali, non lo dimenticare mai», gli disse all’orecchio, «noi resteremo sempre quelli che sono tornati a vivere dopo il naufragio del Titanic».
BOX
Il Titanic fu la nave dei tennisti. Non deve sorprendere, il tennis era il gioco che l’alta borghesia aveva fatto proprio, strappandolo alle mani dell’aristocrazia e delle corti reali negli anni che videro completarsi l’affermazione economica della nuova classe sociale e la sua trasformazione in classe dirigente. Con i due protagonisti del racconto, Karl Behr finalista a Wimbledon e Richard Norris Williams, due volte vincitore degli Us National Championships, il tennis era rappresentato ai massimi livelli da John Jacob Astor, in quegli anni considerato l’uomo più ricco degli Stati Uniti, proprietario di mille cose (tra queste, con il cugino, il Grand Hotel Waldorf-Astoria) e dei club tennistici più esclusivi intorno a New York; Joseph Bruce Ismay, armatore del Titanic e fondatore della White Star Line proprietaria del transatlantico, buon giocatore in gioventù e proprietario del circolo di tennis più importante di Liverpool; Thomas McCawley, sportivo tuttofare, maestro di ginnastica e anche maestro di tennis, assunto dalla White Star Line come responsabile della palestra del Titanic; Alfred Nourney, giocatore di carte per professione, tennista e socio fondatore del Tennis Club Rot-Weiss di Berlino; Charles Eugene Williams, considerato il campione mondiale di tennis in sala (lo squash), si imbarcò per raggiungere Chicago dove avrebbe difeso il suo titolo. L’armatore Ismay per aiutarlo nel viaggio, gli propose di lavorare come maestro nella saletta squash ricavata nel Ponte F del transatlantico. Giunto in America gli comunicarono che la sfida di Chicago era stata cancellata.
NUMERI
13 La breve vita del Titanic, appena tredici giorni dal 2 aprile 1912, quando dopo il varo dai cantieri di Belfast affrontò le prove in mare, alle prime ore del 15 aprile, quando si inabissò nell’Oceano Atlantico.
269 La lunghezza del transatlantico Titanic, che misurava 28 metri in larghezza. Aveva una stazza di 46.328 tonnellate ed era mosso da un propulsore a vapore (era dunque un piroscafo) alimentato da 29 caldaie per le due eliche laterali e da una turbina Parson per l’elica centrale. La velocità massima era di 23 nodi, circa 43 chilometri orari. Il Titanic poteva trasportare 3547 persone (equipaggio compreso). Ciò che distingueva il Titanic dalle altre grandi navi sulle rotte transoceaniche, era l’allestimento sfarzoso degli interni, che comprendeva anche una piscina coperta sul Ponte D, una palestra, un bagno turco e un campo di squash. Fra le camere di prima classe, tutte elegantissime, vi erano 34 alloggi privati, dotati di soggiorno, sala di lettura, sala da fumo e ponte privato e coperto per la passeggiata.
2223 Le persone a bordo del Titanic nel viaggio inaugurale. Trecentoventinove passeggeri in Prima Classe, 285 in seconda, 710 in terza e 899 di equipaggio. I sopravvissuti furono rispettivamente 199, 118, 174 e 214. In tutto 705, a fronte di 1518 vittime. A subire le perdite più rilevanti fu la Terza Classe, invitata a salire sulle scialuppe solo dopo l’imbarco della Prima e della Seconda Classe.