Non ditelo che è come gli altri, non sarebbe del tutto vero. Gli somiglia molto, questo è sicuro. Generazione Delpo, che altro? Due colpi e via, il servizio come un meteorite arroventato, e il dritto che viaggia come un treno ad alta velocità.
Matteo Berrettini non esce dai canoni preferiti del tennis giovane, anzi, ne è uno dei migliori interpreti, ma aggiunge un tocco italiano alle sue creazioni. Ed è quello che fa la differenza. In campo, e anche sulle tribune, dove la curva Berrettini si sta allargando di partita in partita. C’è un Dna tricolore nel gioco di Matteo, una griffe manifatturiera che si appropria dei momenti più caldi e memorabili delle sue partite e lo spinge a risolvere con i colpi che non ti aspetti le situazioni più intricate. C’è, dietro, una filosofia antica, quella che Pietrangeli e Panatta hanno condiviso e forse tratto da una città che dai propri eroi non ha preteso solo pane e sangue, ma divertimento. Molto divertimento.
Un’aria che Matteo respira dalla nascita e si rivela negli snodi di un tennis che, in divenire, usa quasi fossero sliding doors. Vengono da lì le improvvise scelte tattiche che mandano in estasi gli americani in tribuna…
Quando Matteo dipinge una delle sue smorzate, che sembrano accompagnate da una mano paziente e amorevole, che depositi la pallina dall’altra parte senza farla destare. Ne ha fatte poche contro Rublev, ma talmente morbide e precise che il russo è finito quasi intorcinato alla rete. Oppure, quando il nostro decide che è giunto il momento di rispondere in lungo linea sulla seconda di servizio dell’avversario, e pianta lì uno di quei colpi assassini che lo stanno facendo diventare famoso nel circuito.
E ancora – lo si è visto sul primo punto del tie break contro Rublev – palla ad attirare verso rete l’avversario, per sorprenderlo con un pallonetto al volo in avanzamento.
Piccoli giochi di prestigio che gli permetteranno, se non altro, di apprezzare – e forse di intuire – il tracciato tattico solo all’apparenza scombiccherato di un Gael Monfils in ripresa, dopo una stagione che per il suo standard è andata meravigliosamente bene. Sono stati solo tre i ritiri in corso d’opera, quasi niente per uno che dal 2007 a oggi ha saltato nove tornei del Grand Slam per infortuni al ginocchio destro, alla spalla destra e al polso sinistro, e dal 2017 addirittura 13 Masters 1000 per lesioni alle ginocchia destra e sinistra, al tendine di Achille, alla schiena e alla caviglia. Lamonf, lo chiamano così, è pronto per essere portato come cavia agli esami universitari di medicina applicata. Lui ha avuto qualsiasi tipo di infortunio, non si è fatto mancare nulla.
Ma di tanto in tanto ritrova il suo tennis ricolmo di giochi di prestigio, e si diverte a farne un moloch per i giovanotti di belle speranze, che non sanno come abbatterlo, e nemmeno come aggirarlo. In questi Us Open, cui si è iscritto senza grandi speranze dopo il forfait alle semifinali del Masters canadese, prima di incontrare Nadal, il suo fisico ha preso d’incanto a collaborare. Prima Ramos Vinolas, poi Copil, quindi tre ore e 34 minuti di lotta affannata contro Shapovalov, prima di rintronare Andujar di tocchi avvelenati e battute “spiritose”, per raggiungere Berrettini nei quarti. «Mi piace molto Matteo, colpisce talmente forte che non so se mi darà il tempo per le mie giocate. È un match che mi incuriosisce».
Berrettini condivide. Monfils è uno di quei giocatori che ha conosciuto in tivù prima che sul campo, e gli è sempre piaciuto. «È imprevedibile, e so già che mi farà venire il mal di testa. Ma è un grande, uno che a volte tenta l’impossibile e sa come piacere al pubblico». Con il francese condivide anche un amore tennistico, e non sono in molti nel circuito: Gael sta da oltre un anno con Elina Svitolina, dunque sono in gara entrambi, Matteo con Ajla Tomljanovic.
«Aver raggiunto i quarti mi fa pensare a un’unica cosa», dice Berrettini, «che ho già compiuto un percorso lungo e il fatto che sono ancora in ballo mi deve spronare a ballare finché posso. È un’occasione da gustare fino in fondo». Aveva cominciato l’estate con la caviglia ancora dissestata, ora tutto è andato a posto, «dopo il primo match contro Gasquet ero da buttare via, ora mi sento in forze, la stanchezza non mi crea problemi. L’umidità invece sì. Sotto il tetto si respira vapore acqueo, è come fare dei suffumigi».
Una vittoria su Monfils porterebbe Matteo al numero 13 e non consentirebbe al francese di superare Fognini al numero 11. Insomma, si gioca anche per la squadra, una volta tanto.
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