Tre vecchi, e uno troppo giovane. I soliti e l’altro, che fino a qualche settimana fa esisteva solo nel ristretto club dei connaisseurs, una bella gang di tifosi incalliti, nel tennis. Roger, Rafa e Nole da una parte, in ordine di Slam vinti, 54 in totale; e Jannik dall’altra, 18 anni appena compiuti, primo Slam appena guadagnato, primi record appena appuntati sulle pagine del Libro dei primati, tra cui la vittoria in due challenger quando i diciotto erano ancora da festeggiare, impresa piccola ma condivisa solo con altri dieci da quando il tennis è Open.
Il più giovane al via degli US Open 2019, e il più giovane fra i primi 200 (sulla poltrona numero 131), Jannik Sinner, italiano di montagna che molto bene ha scalato le qualificazioni del Major di New York, ma da tempo giunto per transumanza tennistica fino alle rive del Tirreno, a Bordighera, dove Riccardo Piatti, Massimo Sartori e Andrea Volpini sovrintendono alla sua crescita.
Nel confronto tra vecchi e nuovi si compone anche il quadro d’assieme di quest’ultimo Slam della stagione, in uno sport in cui i più stagionati sono sferzati dall’inesausta voglia di conquista e i ragazzi sembrano ancora prendere le misure delle loro possibilità future, e si danno il cambio nell’assaltare il fortino. Prima Zverev, poi Thiem, quindi Tsitsipas, ora Medvedev. A Jannik Sinner si chiede altro, per il momento: imparare a battersi in ogni condizione, avere per il possibile il pallino del gioco sulla sua racchetta, e prendere rapidamente visione del tennis che lo circonda, campi, luoghi, stadi, modi di essere e di fare della concorrenza, tutto ciò che gli possa servire per il futuro.
«Non l’ho inviato negli Stati Uniti per migliorare la classifica, per avvicinarsi ai cento, e magari conquistare lo scettro di piccolo fenomeno della stagione», dice Riccardo Piatti, che ha un’idea della crescita (condivisibile) che prevede, nella prima fase, una somma di esperienze e una sottrazione degli inutili orpelli, «i conti li faremo quando Jannik avrà 22 o 23 anni e avrà terminato di immagazzinare tutto ciò che gli serve. Lì si vedrà se davvero sarà in grado di battersi con i più forti».
Se queste sono le premesse, facile supporre che cosa Riccardo stia per dire al suo allievo in vista del match d’esordio agli US Open, che lo oppone a un campione che prima degli infortuni è stato molto vicino a un posto nel Club dei primi quattro, Stan Wawrinka (oggi, ore 23, campo Luis Armstrong): il focus sarà rivolto all’immediatezza con cui Jannik comprenderà l’elaborazione tattica dello svizzero, e come si disporrà a contrastarla. Studiare, insomma. Wawrinka offre un testo importante, ricco di indicazioni indispensabili. «Sinner è un ragazzo che si allena con un’intensità meritevole», continua Piatti, «si vede che è destinato a fare bene, se procederà lungo il cammino tracciato. Non c’è fretta, dunque. Deve prendersi il tempo che gli serve. Ora è il momento dello studio».
Non interessa a Piatti sapere, o sentire, che Sinner scenderà in campo per vincere, ma verificare se il diciottenne sarà in grado di sviluppare un tennis che oggi, o più verosimilmente un domani, lo porterà a vincere contro giocatori forti come Wawrinka. «Jannik è una spugna, ha una formidabile capacità di apprendere e di risolvere i problemi. Più contenuti saprà immagazzinare, più chance avrà di gestire il suo tennis in tutti i momenti delle partite». Resta il fatto che il ragazzino di San Candido ha chiuso il 2018 al numero 551 del ranking, dunque il balzo è stato poderoso, 420 posizioni in otto mesi; e che i primi cento sono a un tiro, distanti 140 punti appena. Logico che in molti lo seguano convinti che presto arriveranno segnali importanti. Ma Piatti è irremovibile: «Jannik ora deve nutrirsi di esperienze, non di punti».
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