La parola del Direttore

Djokovic, il Papa tennista che insegue il Dio Federer

Nadal è stato cancellato, non soltanto battuto. E non l’avevo mai visto perdere così una finale. Mai in tre set. E mai senza riuscire a ritrovare, anche per un solo istante, il filo del gioco. Confuso, turbato, poi bistrattato e strapazzato. Alla fine fiaccato, snervato, sfinito. In una parola, prostrato. L’implacabile precisione del serbo si è abbattuta sullo spagnolo risucchiandolo come uno tsunami che ti ghermisce e ti trascina lontano, nel mare aperto delle incertezze.

Tre set di stati d’animo tutti al negativo, nei quali il tennis è stato solo un mezzo per marcare una superiorità che si è spinta fin quasi alla sopraffazione, spiegano sin troppo bene perché Nadal, la finale di ieri, non avrebbe mai potuto vincerla. Ci ha provato, si è ribellato, ma non è riuscito a cambiare per un solo istante l’andamento di un match che Djokovic ha presidiato da cima a fondo, con l’ostinata sfrontatezza che fa parte del suo carattere. C’è qualcosa di mistico in Nole, e insieme di presuntuoso, forse per questo non tutti lo amano, pur senza porre in discussione la sua forza e il buon diritto, ritrovato dopo due anni di crisi (fisica, tecnica, familiare, mah?), a guidare il tennis. Non piace nemmeno nei saluti finali, quando indica di prendere da lassù, nell’alto dei cieli, per distribuire al pubblico. Sembra un Papa tennista.

L’analisi di Rafa appare spietata, ma lucida e probabilmente veritiera. «Temo che le belle vittorie ottenute in questo torneo, che ha segnato il mio ritorno al tennis dopo tanti mesi di assenza, abbiano creato un’illusione, non solo fra la gente che mi vuole bene, anche in me stesso. Ho molto lavorato sul mio gioco di attacco, meno su quello difensivo, e le facili vittorie di questo Slam mi hanno consegnato alla finale senza avere mai sofferto. Mentre giocavo, sentivo che mi mancava qualcosa, e allora la cercavo, ma senza trovarla. Credo fosse quella mancanza di abitudine a soffrire durante un match che andavo inseguendo. Ho vissuto di vita troppo facile in questo torneo». Per quel che conta, io la condivido.

Condivido meno, invece, le speranze di Nole, perentorio quando ricorda che agganciare Federer sulla vetta dei venti Slam, e magari sfrecciargli di lato, in uno spericolato sorpasso che lo consegnerebbe a 21, magari a 22 titoli, sia possibile, anzi, sia il fine ultimo di questa parte finale della carriera, l’obiettivo sul quale impegnerà tutte le sue forze. Che sono tornate a fluire potenti nel suo fisico da acciuga vegana e lo inondano di consapevolezza. È il settimo Australian Open, Federer ed Emerson restano a sei. È il terzo Slam consecutivo, una vittoria a Parigi gli consegnerebbe un nuovo Non-Calendar Grand Slam, cioè un Grand Slam ottenuto in due stagioni, già firmato nel biennio 2015-2016. Ma lui punta al Grand Slam nell’anno solare, e lo dice. Non sarà facile con tutti i tennisti che vorranno fargli lo sgambetto. Così come non sarà facile raggiungere Federer a quota venti Slam: dopo i 31 anni, i Major si vincono con il contagocce, parola di statistici. Ne ha vinti quattro Rosewall, tre Federer, a Djokovic ne servono altri 5. E il prossimo Roland Garros avrà inizio quando Nole sarà da poco entrato nei 32 anni. Sarà di consolazione il primato in classifica, dove il serbo tornerà a distanziare gli inseguitori di quasi tremila punti, mentre Federer finirà sesto e dovrà sbrigarsi a rimontare se non vuole ritrovarsi la strada irta di ostacoli a Wimbledon.

Daniele Azzolini

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