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25 Ott 2017 09:27 - La parola del Direttore
Ace Cream/ La rivoluzione di Billie Jean
Alle femministe americane regalò un pretesto, una vittoria e una frase che ancora oggi ha il sapore inebriante di una ribellione.
di Daniele Azzolini
Alle femministe americane Billie Jean regalò un pretesto, una vittoria e una frase che ancora oggi ha il sapore inebriante di una ribellione. «È maleducazione chiedere a una persona a quale sesso appartenga, prima di averci fatto l’amore».
Pretesto e vittoria, in quello strampalato 20 ottobre del 1973 all’Astrodome di Houston, furono ciò che il Movimento di Liberazione delle donne attendeva, per portare sulle prime pagine dei quotidiani le istanze paritarie che da qualche anno rimbalzavano fra le diffidenze dei progressisti, l’ironia smaccata dei conservatori e l’indifferenza dei molti che ritenevano di non aver tempo da perdere dietro alle provocazioni di un gruppo di donne con molti dollari nelle borsette e troppi grilli per la testa. Il Women’s Lib non si era ancora liberato delle sue strettoie.
Billie Jean aiutò a sgomberare la strada. Gli spiritosi proclamarono la nascita del Women’s Lob, e poco importava che il pallonetto, il lob, fosse un’arma lontana dalla sua indole tennistica. Il gioco era fatto. Il match fra la ventinovenne Billie Jean Moffitt, sposata King, e il cinquantatreenne Robert Lorimer Riggs, detto Bobby, in una città percorsa da infiniti cortei di donne, si giocò davanti a 30.472 spettatori per un’audience televisiva clamorosa, superiore ai 50 milioni. Le femministe ebbero le prime pagine, Billie Jean il ruolo eterno di suffragetta. Il risultato del match, 64 63 63, venne stampato su migliaia di magliette e sventolato nei cortei. Nelle cronache del giorno dopo si racconta che molti dei passanti meno attenti si precipitarono al telefono, convinti che dietro al numero si celassero chissà quali occasioni d’incontro.
La frase sull’amor libero appartiene invece a un secondo momento. Forse a una seconda vita di Billie Jean, nata in una famiglia californiana cattolica e iscritta da ragazza a gruppi di ispirazione tradizionalista e conservatrice come la Zayn Welfare Sorority, frequentazioni che certo non lasciavano presagire un suo ruolo così centrale nel movimento delle donne, addirittura da paladina e ispiratrice. Ma questo accadde dopo, e fu il frutto – per usare una frase in voga nei movimenti femminili del tempo – di una lunga presa di coscienza.
Gli eventi di quegli anni, in realtà, si svolsero su piani distinti, e in date distanti fra loro, seppure a collegarli vi fosse quello Spirito dei Tempi che pose sulla scacchiera della politica internazionale, insieme con le spinte innovatrici di grandi masse giovanili, anche i diritti delle donne e le loro richieste di parificazione. Billie Jean, in questi avvenimenti, operò a tutto campo. Fu coraggiosa. Decisa e decisiva. Prese sulle spalle il compito di guidare il gruppo, e lo fece sino in fondo. Cambiò se stessa, anche. Si scoprì diversa e accettò di affrontare apertamente le critiche più bigotte e le attenzioni più irritanti. Il bel film firmato da Jonathan Dayton e Valerie Faris (The Battle of the Sexes, da pochi giorni sugli schermi) non trascura questi aspetti, ma li avvicina sin troppo fra loro e li dispone sotto le insegne di un femminismo militante che Billie impugnò solo in corso d’opera.
La guerra delle Houston’s Nine
Lo strappo che spinse le tenniste a lasciare il circuito comune (allora era così), in realtà non prende forma da una Billie Jean già apertamente femminista, quanto da una Billie Jean decisa a far fruttare il mestiere di tennista, il suo e quello delle colleghe. Ne aveva più di un motivo. Il nuovo circuito professionistico nato dalle battaglie del 1968 non aveva individuato un ruolo preciso per le competizioni femminili, relegate a fare da contorno ai match degli uomini. C’era un problema di visibilità, e soprattutto un problema di soldi. Quel primo professionismo dava da vivere ai tennisti, non a Billie Jean e alle sue amiche. Fu lei a stimolare l’azione, audacissima, dell’editrice Gladys Heldman, a capo della rivista World Tennis Magazine, fondata nel 1953. Ma è opportuno chiedersi che cosa sarebbe stato del tennis femminile se non vi fosse stato un casus belli a scatenare la protesta delle giocatrici.
Il caso esplose a Los Angeles, nel 1970. Il tradizionale Pacific Southwest, organizzato da Jack Kramer, propose quell’anno un montepremi talmente squilibrato fra uomini e donne (8 a 1 in favore dei tennisti) da spingere alla guerra le tenniste più forti. Gladys propose alle giocatrici di boicottare l’evento e di organizzare un torneo alternativo in un’altra città. Si sarebbe occupata lei stessa di trovare uno sponsor e un montepremi all’altezza… Fu quello il primo atto della rivoluzione di Gladys Heldman, e i fatti che rapidamente si succedettero ne furono la diretta conseguenza. Gladys contattò un circolo in grado di ospitare il torneo, e prese accordi con l’Houston Racquet Club, quindi si rivolse all’amico Joseph Cullman, presidente di una delle più grandi industrie del tabacco, la Philip Morris, infine provocò il distacco definitivo dal circuito delle nove più forti giocatrici statunitensi mettendole sotto contratto con la sua stessa rivista. Un contratto a tutti gli effetti di pura facciata, ma tale da provocare un autentico terremoto nel tennis, prima americano e poi mondiale: a Houston, Billie Jean King, Rosie Casals, Nancy Richey, Peaches Bartkowicz, Valerie Ziegenfuss, Kristy Pigeon, Judy Dalton, Kerry Melville e la figlia di Gladys, Julie Heldman, si legarono al World Tennis Magazine Tour per la somma di un dollaro ciascuna. Passarono alla storia come le “Houston’s Nine”.
I vantaggi del fumo…
I vantaggi immediati erano evidenti, quelli futuri tutti da valutare, ma le nove giocatrici e la Heldman non avevano alcuna intenzione di fare marcia indietro. Intanto, avrebbero giocato a Houston per un montepremi di 7.500 dollari, e di seguito in altri cinque tornei che la Heldman si era garantita con i soldi della Philip Morris. Proprio in quei mesi, del resto, l’industria del tabacco era impegnata in una campagna pubblicitaria di larghe dimensioni, per il lancio di un nuovo tipo di sigarette dedicato al pubblico femminile, le Virginia Slims. Lo slogan della pubblicità, accattivante e in linea con le spinte femministe di quegli anni, recitava dai manifesti appesi in tutte le città: You’ve come a long way, baby… Hai percorso una lunga strada, ragazza. Cullman si convinse rapidamente che il suo marchio avrebbe ricevuto benefici e ulteriore visibilità dall’abbinamento con le tenniste ribelli, e appoggiò l’iniziativa con tutto il carisma personale e la sua forza economica. La United States Tennis Association corse ai ripari, ma lo fece in modo tale da favorire il definitivo distacco. Squalifiche e sanzioni (e una certa protervia ostentata da Jack Kramer nei rapporti con le tenniste) convinsero le tenniste ad andare sino in fondo, e nel 1971 la nascita della Women’s Tennis Association e di un circuito tutto al femminile era cosa fatta. Ovviamente, si sarebbe chiamato Virginia Slims Tour.
«Senza Gladys, il nostro tennis non sarebbe stato lo stesso», fu il ricordo di Billie Jean King nel giorno della morte della Heldman (il 22 giugno del 2003). La rivoluzione del 1970 e la nascita del Tour nel 1971 furono anche l’ultimo atto vissuto in prima persona dalla Heldman come editrice e direttrice di World Tennis Magazine. Nel 1972 la rivista fu ceduta alla CBS Publications e Gladys preferì dedicarsi al Tour, in modo che si rafforzasse e procedesse spedito. Ne fu la direttrice e l’organizzatrice fino al 1973 e si occupò da vicino degli aspetti legati al suo sviluppo, lanciandolo nel 1971 in Europa e nel 1972 in Giappone; dal 1975 al 1976 si occupò invece di una nuova creatura: il circuito dei Futures, l’Avon Circuit, un Tour di eventi professionali dal montepremi più basso che offriva spazio alle nuove leve.
Libero amore in libero tennis
In quegli anni di avvio del nuovo circuito femminile, Billie Jean fece con coraggio i conti anche con se stessa, con la sua sessualità e con il suo passato. Era sposata (dal 1965) e voleva bene al marito Larry, alla pazienza che lui le mostrava. «L’unica vera famiglia di Billie è il tennis», diceva Larry King, e così era. I due collaborarono insieme anche nella creazione di nuove occasioni tennistiche (il World Team Tennis, su tutti) e il loro matrimonio si spense ben più tardi di quanto non faccia intuire il film. Addirittura quattordici anni dopo, nel 1987. Ma la strada dell’amore libero imboccata da Billie Jean appartiene ai primi anni Settanta, e sul ruolo di Marilyn Barnett, parrucchiera e amante della tennista, il film indugia a lungo, seppure con garbo. «Sei una donna che non ha confini», dice Billie Jean a Marylin. È la spinta che le mancava per esplorare se stessa. Quanto se ne sia pentita il film non lo dice. Marilyn in realtà la costrinse a una lunga battaglia legale, chiedendo gli alimenti per quello che era stata, un’amante, e anche per quello che non divenne mai, una moglie.
La vittoria di Houston fece conoscere la King in tutti gli Stati Uniti e la pose su un piedistallo, più in alto di avversarie che vinsero più di lei (39 titoli dello Slam, 12 in singolare), come la nemica Margaret Court che di trofei major ne ha alzati 64 (24 in singolare). Billie fu presidentessa della WTA, e più tardi guidò nel circuito prima Martina Navratilova, poi la transessuale Renée Richards. Eppure, un pizzico di merito in quegli eventi che dettero tanto slancio a tenniste e femministe, Billie Jean lo dovrebbe concedere anche al “maiale sciovinista” Bobby Riggs e a una sconfitta che non era nei pronostici.
In quello stesso 1973 Bobby riuscì a convincere per prima la Court e la sconfisse con facilità. Il match si svolse a Ramona, finì 61 62 ed ebbe molto pubblico ma scarsa risonanza sui media sebbene la Court, in quelle settimane, fosse la numero uno del tennis femminile. Niente a che vedere con quello che accadde a Houston, ma abbastanza per convincere il grande pubblico, fuori da ogni convinzione politica, che la King non avesse poi molte chance di farcela, contro un ex campione (due US Open, Wimbledon e una finale al Roland Garros) di appena 53 anni, allenato dalla partecipazione al Tour Over 50. Il tennis di oggi, forse, avrebbe avvicinato maggiormente le parti, fino a garantire una vera “battaglia”, ma quello di allora, morbido e meno aggressivo, lasciava certo più tempo per distillare le energie ed evitare crolli fisici al campione più anziano. E invece, la sconfitta fu ingenerosa.
In realtà, a match appena finito già vennero formulate svariate ipotesi di combine. Non fra i due, ché non ce ne sarebbe stato il modo, ma fra Riggs e se stesso. Si fece balenare la possibilità che Bobby avesse puntato migliaia di dollari sulla sua sconfitta. Billie Jean respinse sempre queste voci, e dopo la morte di Riggs (a 77 anni, nel 1995) giunse a promettere querele a chiunque avesse intenzione di spargere dei dubbi su quel suo momento di gloria. Ci pensarono più avanti alcuni malavitosi in odore di mafia a tornare sull’argomento. Ascoltati in morte del loro boss, rivelarono che era stato lui a ricevere le scommesse di Riggs, ma quanto ne sapessero davvero, e quanto si fossero affidati alle voci che circolavano non è mai stato appurato. Di sicuro, Bobby Riggs ebbe fama di scommettitore, capace di proporre qualsiasi sfida per il gusto di vincerla. La più famosa fu a Wimbledon… Puntò tutto sul triplete, e lo vinse: singolare, doppio e doppio misto. Era il 1939. Altre passarono per quello che erano, niente più che bravate, dalla sfida “in campo con i cani al guinzaglio” a quella – con una signora del suo club – legato a una sedia.
Billie Jean King viene considerata oggi una delle donne che hanno maggiormente influito sulla storia femminile del secolo passato. Il film gliene dà atto. E la diatriba con la federazione che la cacciò, insieme con le altre otto di Houston, è stata più che appianata dalle insegne del centro che ospita gli US Open a Flushing Meadows, ribattezzato Billie Jean King USTA Center. Forse, fra le tante celebrazioni, si tende a dimenticare che fu prima di tutto una straordinaria tennista, interprete di un gioco sempre aggressivo, divertente, costantemente proiettato verso la rete e difficile da giocare. A suo modo, un esempio da imitare.