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Quale sarà la religione del futuro?

C’era una volta…

“Un Re!” diranno i nostri piccoli lettori.

No, ragazzi, avete sbagliato. Un giorno diremo semplicemente “c’era una volta un mondo senza Federer, Nadal e Djokovic” e tenteremo di ricordarci come saremo arrivati a nuovi possibili idoli.

Sì, perché al momento alzi la mano chi riesce a vedere più in là di questi tre nomi per riuscire a scovare un qualsiasi personaggio che muova le folle dopo la banda dei quattro.

“I giovani stanno arrivando… Il talento qui e là è indubbio… Questo appena metterà a posto questo e quest’altro non lo vede più nessuno…” e via dicendo. Ma per ora, mentre un trentaseienne (o quasi) vince il primo slam e il primo Masters 1000 dell’anno, restano solo discorsi da bar e le nuove leve, per quanto potenzialmente e idealmente a volte più imbattibili di Goldrake e Mazinga con tanto di componenti, restano solo lontane e vaghe illusioni. A farne le spese alla fine sono forse i poveri tifosi, che ancora restano aggrappati ai “vecchietti” della generazione d’oro, che tutt’oggi continua a mietere proseliti e allungare le code ai botteghini. I Kyrgios e gli Zverev restano ancora semplici comparse sbiadite di fronte ai nomi di cui sopra.

Certo, ci mancherebbe che non sbiadissero, visto il palmares di quei grandi. Del resto stiamo parlando non di campioni, ma di alcuni dei giocatori più forti della storia di questo sport: in poche parole, roba difficile da sostituire o anche solo lontanamente da imitare.

Sta di fatto però che al momento nessuno, ma proprio nessuno, pare destinato a ereditarne anche solo un decimo della fama e del carisma. E non solo perché questi mostri sacri sono ancora in circolazione, bensì perché nessuno dei nuovi ancora dà sicurezze, o almeno un minimo di quella garanzia alla quale un tifoso si possa appigliare per costruire una nuova fede tennistica.

Prendiamo ad esempio i volti migliori della nuova generazione, senza che i Murray o i Wawrinka o anche i Raonic e i Nishikori ce ne vogliano. Loro sono cresciuti più o meno in parallelo a questi fenomeni e resta difficile pensare che ne possano ereditare il seguito. Senza contare che Wawrinka senza Nole davanti non ingrana, gli ultimi due sono sempre rotti e di Muzza poveretto frega solo agli inglesi e solo quando vince.

Dimitrov: ce lo mettiamo non tanto per età quanto per il fatto di avere trovato quest’anno, sembra, la strada giusta. Di lui si è detto tutto, l’etichetta di nuovo Federer non lo ha aiutato ma probabilmente per stile è veramente quello che più si avvicina all’elvetico. Se solo vincesse i tornei che contano non faticherebbe a trascinarsi dietro anche i fan del re, che per ora vivono aggrappati ad ogni secondo di carriera rimasta a nonno Roger. Poi per carità, una cosa è giocare simile a Federer, un’altra fare del tennis una religione per proseliti come ha fatto lui. E nel caso di Dimitrov siamo ancora al paragone Cattolicesimo-Scientology.

Zverev: il tedesco è a detta di tutti una forza della natura. Ancora non ci è però dato sapere quale. E oltretutto il caratterino non sembra attirare molti consensi tra i tifosi, per quanto gli addetti ai lavori ne ammirino estasiati i colpi. Senza contare che malgrado faccia vedere i sorci verdi ai grandi nomi (spesso perdendo, però), anche lui continua a mancare gli appuntamenti importanti. La sensazione è di trovarsi davanti a un Safin nuova maniera, ma per adesso mancando i successi, la simpatia dei fan va altrove.

Goffin: il più “buono” del nuovo clan. E per questo purtroppo non se lo fila nessuno. Tanto leggerino da venire spazzato via dopo le prime avversità. Bello da vedere ma solido quanto la casetta fatta di canne contro i soffi del lupo cattivo. E il tifoso di tennis è volubile, si sa; gli potrai piacere, ma se alla fine non arrivi mai nemmeno a una finale, ti dimentica, un po’ come ha dimenticato il guru Dolgopolov.

Thiem: solido, sì. Regolare, pure. Peccato che giochi anche il torneo di Topolino e arrivi ai quelli grandi cotto come un tacchino. Eppure è quello, almeno sulla terra battuta, che dà la sensazione di poter attirare tutti, con il suo gioco. Sano e non troppo personaggio, ma forse il più serio del gruppo, nel suo modo di vedere il tennis. E questo all’appassionato di oggi piace, cresciuto a pane-Gattuso e Ferrer e consapevole del sacrificio e fanatico del “duro lavoro” e non più preda di geni ribelli alla McEnroe che però oggigiorno non arrivano da nessuna parte.

Infine Kyrgios: quello, a detta di tutti, predestinato. Quello che ha le palle cubiche. Quello che ha già battuto tutti e tre i mostri sacri (Nole addirittura due volte) senza mai perdere e, nel caso di Federer, salvando anche un match point. Quello che ha colpi fuori dal normale e che ha anche il carisma per trascinarsi dietro la folla durante il match, con la sua verve agonistica. Ma anche quello che ancora gioca il rovescio praticamente da fermo e impalato come una gru e che non sa ancora se diventare un campione o un semplice tennista-turista. Quello che può battere Djokovic ma perdere la partita dopo perché per ora insieme a un dritto e un servizio bionico gli hanno anche donato il cervello turbato di Safin e la resistenza di Bertolacci. Per dirla in modo più idilliaco, semplicemente un Van Basten senza i 90 minuti nelle gambe, e senza essere ancora Van Basten. La cosa certa, almeno nel suo caso, è che il pubblico, quando gioca il suo tennis, lo adora. Resta da vedere se comincerà anche a ripagare questo affetto istintivo.

Insomma, ancora la strada è lunga. E del resto, nessuno è diventato idolo prima ancora di vincere degli slam (o a meno che uno non si chiamasse Goran di nome o Nalbandian di cognome), nemmeno Federer, per quanto quel quarto turno a Wimbledon 2001 avesse aperto gli occhi a molti. Fatto sta che se a Indian Wells il match più seguito e sentito è stato un ottavo di finale, di acqua sotto i ponti ancora ne dovrà passare.

Davide Bencini

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