Il tennis professionistico è una macchina che gira a pieno regime con esibizioni e tornei in tutto il mondo da gennaio a novembre. Grazie alla globalizzazione ogni anno possiamo ammirare nuove giovani promesse di nazionalità differenti darsi battaglia a suon di dritti, rovesci e colpi spettacolari per farsi strada tra i grandi con generazioni e stili a confronto. Ma dietro a tutto questo c’è un movimento di giocatori over 35 che mossi da una passione sconfinata e un agonismo innato hanno sposato questo sport allenando con una meticolosità da top player tecnica, fisico e mente nella quotidianità di tutti i giorni.
Costoro rappresentano lo zoccolo duro del nostro movimento. Animano i circoli nelle vesti di soci dilettandosi in partite amichevoli alla ricerca di un avversario diverso da sfidare ogni giorno o popolano i tabelloni dei tornei agonistici individuali e a squadre con obiettivi di classifica ben precisi da raggiungere alla ricerca del loro massimo potenziale tennistico. Se si pensa quindi all’impegno in termini di tempo e risorse viene naturale definirli come professionisti della racchetta. Peccato però che nella sua accezione originale il termine professionismo implica che l’attività sportiva venga esercitata con continuità ed esclusività sulla base di impegni contrattuali retribuiti.
Nel rispetto della lingua italiana limitiamoci a definirli appassionati mossi dall’umile desiderio di spingersi oltre i propri limiti. Disposti a darsi battaglia, post lavoro, in infinite partite di quarta categoria che si protraggono nelle nottate nostrane o tenere testa alla terza categoria contro avversari di un decennio più giovani grazie a ore di allenamento consumate durante la pausa pranzo o ai corsi serali per adulti. Un mix tra lavori tecnici personalizzati svolti ad ottimizzare l’esecuzione del colpo nel miglior compromesso tra riuscita e dispendio energetico, esercitazioni combinate al cesto con l’alternanza tra tennis e atletica in un susseguirsi di cambi rapidi con pause brevi che simulano i due minuti al cambio campo. E un consueto ma mai banale lavoro in palleggio per scambiare ininterrottamente lungo linea e diagonale alla duplice ricerca di ritmo e continuità, sia da fondo campo sia con l’uomo a rete, in un gioco di traiettorie e rotazioni accompagnate dalla crescente fatica e il respiro affannoso che non devono intaccare la lucidità della mente. E poco importa se non vinceranno Slam o non diventeranno gli idoli dei bambini perché lì, nella loro realtà tennistica, non hanno nulla da invidiare ai campioni famosi; sono rispettati nel circolo in cui sono tesserati e il loro cognome dopo innumerevoli partite giocate è ormai noto agli addetti ai lavori e ben impresso nella memoria dei giovani avversari.
Chiamateli pallettari, grandi lottatori, esponenti di un tennis antiquato con back di rovescio puri spesso oggetto misterioso per le nuove generazioni, giocatori atipici che non disdegnano un serve e volley o una palla corta forse non sempre accompagnati da uno stile impeccabile o una tecnica sopraffina ma da un’invidiabile concretezza.
Alla fine quindi si riduce tutto all’uso corretto del termine professionismo all’interno della frase perché, per essere un giocatore professionista devi entrare nell’ATP World Tour ma per riuscire a giocare agonisticamente a tennis da over 35 devi essere un professionista.
Francesca Amidei
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