In principio fu Londra 2012. Fu il primo obiettivo che Roger mise davanti a sé e ai suoi tifosi: quelle Olimpiadi a Wimbledon che avrebbe giocato da trentunenne, gli sembravano un sogno. Chiudere la carriera in quel modo sarebbe stato perfetto, magari con una vittoria o comunque una medaglia.
La medaglia la vinse, non fu quella che si augurava perché a portargliela via – in modo abbastanza netto – fu Andy Murray, in una finale senza storia dopo una epica e distruttiva semifinale vinta dallo svizzero contro Juan Martin Del Potro, che poi si aggiudicò il bronzo contro Novak Djokovic.
Allora capì che trentuno eran poi pochi per uno come lui; perché non giocare altri quattro anni? Rio 2016, il Brasile, il Sudamerica amato e visto poco, un’altra chimera. Quattro anni ottimi, nessuno Slam. Poi l’infortunio, poi la rinuncia a quell’obiettivo bramato, cercato, posto come traguardo forse ultimo; la delusione, la paura di non ricominciare più.
Gennaio e le sue sorprese: il 2017 dona a Federer quel che cinque anni di competitività non gli avevano donato, uno Slam. Il diciottesimo. Rimasto a lungo nella buca numero 17, conscio delle difficoltà e delle possibili sorprese, durante la premiazione a Melbourne si lascia scappare: “Spero di vedervi anche l’anno prossimo. Se non fosse così, è stato meraviglioso”. C’è gelo attorno, incredulità. Molti addirittura fanno finta di non sentire. Ma come, ha appena trionfato dopo sei mesi fuori e si tira fuori così? Le celebrazioni poi continueranno tronfie e a lungo per pensare ancora a quella frase, seppellita in qualche cassetto della brutta memoria tennistica. In fondo, Federer compirà quest’anno trentasei anni e un altro infortunio, altri intoppi potrebbero decidere di chiudere forzatamente una lunghissima carriera. Lo sa lui per primo.
Intanto porta il suo “Norman” (il trofeo degli Australian Open, o meglio la sua replica, ndr) ovunque, perfino sulle montagne svizzere. “Abbiamo una relazione stabile adesso”, scherza Roger. “Mangiamo insieme, a volte dormiamo insieme, viene con me a fare qualche giretto”. Non ci sono ricordi di Federer così attaccato a un trofeo, neanche quello dell’agognato Roland Garros; questo significa troppo di più, dopo tutto quello che è successo.
“La gioia è stata così tanta che ogni tanto mi metto a riguardare la reazione del mio team, tutti che saltano… vorrei rivivere tutto”. Sebbene ci sia qualcosa che ancora lo infastidisce, come quel problema muscolare all’inguine con cui ha giocato metà delle partite a Melbourne: “Non ho ancora recuperato del tutto, in allenamento non posso spingere al 100%, devo stare attento”, dice lo svizzero in un’intervista al New York Times. I malanni di chi per riprendersi ha bisogno di più tempo, un problema degli ultra-trentenni, anche quelli marziani.
“Questa vittoria ha avuto l’effetto più lungo di tutte le altre, devo essere sincero. Sono stato contento di non aver dovuto giocare nelle settimane successive, mi ha permesso di riflettere e di godermela. Quando ho vinto Wimbledon per la prima volta ho dovuto subito giocare a Gstaad. Adesso mi sento ancora al settimo cielo”.
Così in alto, questo cielo, che ha deciso che giocherà ancora altri tre anni. Tre, sì. Fino a 38. Almeno, si intende. E così di buon umore che questi tre anni sono stati decisi e siglati da un accordo con Roger Brennwald, il direttore del torneo di Basilea con cui in passato aveva avuto non pochi problemi. Oggi però tutto è più facile, anche passare da Praga prima di Dubai per promuovere la “sua” Laver Cup che debutterà a Settembre.
Trentotto: sarà quello il capolinea – l’ultima vera fermata – Federeriano?
C’è chi scommette di no.
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