Non è una sconfitta, il problema. Mai, nello sport. Piuttosto, i segnali che ne provengono, il contesto in cui ha preso forma, i motivi vicini e lontani che l’hanno determinata.
Questa della Fed Cup è una sconfitta che tutti, nessuno escluso, sapevano che sarebbe giunta esattamente nei modi in cui si è verificata. E non importa se siano state Francesca e Sara a ratificare il verdetto, ad accompagnare un team da quattro coppe e cinque finali verso l’ultimo viaggio e la rottamazione. Avrebbero potute essere Roberta e Flavia, se l’una avesse avuto ancora voglia di regalare energie alla maglia azzurra, e l’altra non avesse scelto la strada della famiglia e della maternità. E mai scelta fu più adeguata e lungimirante.
Alcune Cassandre come me si sono esercitate, negli anni, a mettere sull’avviso i naviganti, ma quelli avevano la radio di bordo spenta, o fuori servizio, chissà… Si potrebbe persino ingaggiare una piccola gara per scoprire chi sia stato il primo a lanciare segnali d’allarme. Oppure no, sarebbe inutile. Ci siamo esercitati in tanti (tanti? Be’, alcuni, in realtà non molti, anzi decisamente in pochi) chi più chi meno, in articoli che a turno sono stati cassati come infamanti, ingrati, malauguranti. E tutti datano a quando la squadra delle meraviglie ha inviato i primi segnali inequivocabili di invecchiamento. Li ho scritti anch’io (e non me ne vanto) ben sapendo che fossero, a quel punto, tardivi. Il peggio era già stato messo in atto.
Ora, Tathiana Garbin, la capitana che si assumerà l’onere della disfatta senza avere una sola colpa nel processo di dissoluzione, viene a dirci che serviranno cinque anni per avere da capo una squadra da serie A. E che il progetto deve andare avanti. Spero abbia ragione. Ma non so di quale progetto parli e da dove tragga queste sue convinzioni, che a me sembrano – oggi – smodatamente ottimistiche. E nemmeno so quale sia il metro con cui intenda misurare i progressi che serviranno a rappattumare la situazione. Lei che è stata numero 22 senza particolari talenti da mettere in campo, se non la volontà e due gambe molto buone, conosce bene la fatica e la dedizione che sono servite a crescere una carriera come la sua. Una carriera da quattro finali senza mai una vittoria, ma con due lampi di vivida luce, le vittorie sulla Seles e sulla Henin, allora numero uno. Lei conosce le sofferenze cui è andata incontro e dovrebbe anche sapere che non sarà grazie a una nuova Garbin (ma tre o quattro, minimo) che si potrà ricostruire una squadra da serie A, meno che mai una squadra vincente. Per quella servono le campionesse… E oggi, noi tutti lo sappiamo (Tathiana non so) che già soltanto riavere fra noi una giocatrice del valore della stessa Garbin, è una speranza che va contro ogni logica e pronostico.
I miei pochi lettori credo ricordino (forse) che non ho mai cercato meriti federali in una vittoria azzurra, né maschile né femminile. Non ve ne sono, è inutile che vi arrabattiate a scovarli. Vanno in campo professionisti ai quali della federazione non può fregare di meno, che non giocano per la federazione, e che sono disponibili a trattare con essa nella misura in cui vengano loro offerti dei benefits che ritengano utili. Meglio se economici. Non sono cattivi… È il professionismo che li disegna così.
Allo stesso modo, non cerco demeriti federali in una sconfitta, che prende forma sul campo, proprio come quella con la Slovacchia. Sara è stanca e ha problemi fisici. Francesca è al giro d’onore di una carriera che è stata bella come poche altre. Sono vecchiarelle, le nostre, ed è facile imbattersi in una ventenne che abbia voglia di dimostrare i propri talenti e che spari pallate come insegnano a fare oggi. Allo stesso modo, non penso che Jasmine Paolini (21 anni) e Martina Trevisan (23) siano state cresciute male per colpa della federazione. Sono ragazze ancora alla ricerca di se stesse, nel tennis, e magari un domani saranno più brave e affidabili. Ce la mettono tutta. Sta solo a loro fare i conti con se stesse.
Penso invece che se le federazioni (tutte) vogliano continuare a svolgere funzioni nell’ambito sportivo professionale, senza comprendere quanto sia terribile l’errore che commettono – dato che dovrebbero occuparsi solo dei bambini e degli anziani, oltre che di far giocare tutti gli italiani che ne abbiamo voglia in luoghi accoglienti e in condizioni di sicurezza, e di fare accordi con le scuole, con il territorio, per far crescere lo sport e renderlo davvero utile alla cittadinanza anche in chiave di sanità nazionale (vedete quanti compiti importanti avrebbero, senza perdere tempo e soldi a mandare i propri dirigenti in giro per il mondo) –, allora è bene che ripensino a quale debba essere il loro ruolo in un ambito professionistico, da chi debbano essere guidate, del perché vi siano tante difficoltà ad accogliere in ruoli direttivi chi quello sport professionale lo ha frequentato e lo conosce da vicino. Sarebbe bene che fossero stipulati accordi con i tecnici che operano nel circuito professionale, e non solo con quelli che amerebbero farlo. Sarebbe opportuno ripensare ai centri tecnici federali, se ne serva uno solo, per giunta in un luogo lontano da qualsiasi rotta sportiva, oppure di più, e se non debbano essere proprio quei tecnici che hanno dimostrato di sapere guidare atleti di grande spessore, a creare le strategie per guidarli. Sarebbe indispensabile chiamare esperti di comunicazione e metterli alla guida di progetti che abbiano come obiettivo dichiarato quello di convincere genitori e bambini a tentare la strada dello sport. E il Coni, che cosa aspetta a creare una scuola per dirigenti sportivi, in modo da formare una nuova classe di manager magari dalle fila degli stessi atleti che hanno chiuso l’attività agonistica? Vero, occorrerebbe spiegare ai molti dirigenti delle federazioni che non c’è più spazio per i loro viaggi gratuiti con mogli al seguito, che i biglietti per Wimbledon, o per i mondiali di nuoto, o di calcio, se li devono acquistare da soli, e che non è un granché come immagine assistere alla sfilata della squadra italiana ai Giochi Olimpici con in testa un reggimento di vecchietti che festeggiano e fanno selfie, ma pazienza… Sono dirigenti sportivi, dunque di sicuro la prima cosa cui tengono è che lo sport italiano funzioni bene. O no?
La Fed Cup italiana, grazie a Pennetta, Vinci, Schiavone ed Errani ha dominato dal 2006 al 2013. Tenniste nate e avviate all’attività di vertice dalla federazione di Paolo Galgani, poi cresciute grazie a scelte personali e quasi tutte extra italiane. Quelle loro vittorie dovevano fare da slogan per conquistare la fantasia di migliaia di bambine. L’esempio di quattro campionesse così grandi avrebbe dovuto essere il lieto racconto da veicolare sulle tivvù nazionali, nei talk show. Si doveva fare qualsiasi tentativo per indurre le bambine a tirare per la giacca i propri genitori e chiedere di “diventare come Flavia”, o come Roberta, come Francesca e come Sara. Questo è stato l’errore imperdonabile, il più tragico che si potesse compiere. È stato buttato via un decennio di vittorie. E in cambio di che cosa?
Francesca Schiavone ha annunciato dopo il match con la Slovacchia che molto probabilmente non parteciperà allo spareggio per non crollare in serie C. È al giro d’onore, chiuderà la carriera a fine anno. Poi si trasferirà negli Stati Uniti a insegnare tennis ai ragazzi di laggiù. In Italia non c’è posto per lei? Mamma mia, che tristezza…
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