di Salvatore Sodano C’era un ragazzo che come me… amava i Beatles il Rock&Roll… e il tennis? Forse, ma scavando nel fotocatalogo dei vip, a disposizione nella banca dati, di Morandi tennista non c’è traccia. Allora? Cosa c’entra Morandi con il tennis, a parte le circostanze che spesso lo hanno visto esibirsi negli stadi del […]
TENNIS – “Nessuno gioca a tennis meglio di Roger Federer, ma oggi nessuno è più forte di Novak Djokovic”. Il riassunto perfetto di una partita, di una stagione, della realtà attuale arriva dal nostro condirettore, Stefano Semeraro. Un po’ come un’altra frase, detta di sfuggita in occasioni simili (che non sono mancate), ovvero “Federer, il perdente più vincente della storia del tennis”. Non dogmi, non verità assolute, ma i fatti sono fatti e di fatti dobbiamo parlare. Se sul perdente si potrebbe e si dovrebbe discutere da qui fino alla fine dei giorni, sulla finale dello Us Open 2015 c’è poco da dire: Djokovic l’ha vinta con gli attributi. Nessuno mette in dubbio lo straordinario talento tennistico del serbo, ma sull’Artur Ashe è andata in onda una tremenda, tremenda lezione di testa, di freddezza e di coraggio da parte del numero uno del mondo a quello che tutti considerano il più grande di tutti. E tennisticamente parlando pochi dubbi che Federer lo sia.
Però lo svizzero, a differenza di Novak e in passato di Nadal, manca di una cosa: gli attributi. In quel campo, diciamo che farebbe fatica a lottare per la top ten. Se due indizi fanno una prova, tre costituiscono una certezza. Federer non riesce più a battere Djokovic in un 3 su 5 perché condizionato da tante, troppe cose che non lo dovrebbero condizionare ma che lo condizionano in maniera esagerata. E’ sempre stato così lo svizzero, sempre. Per tutta la sua carriera, al netto dei suoi 17 slam e talmente tanti trionfi che nemmeno si contano. E chi non se ne vuole accorgere, in primis i suoi tifosi, sbaglia. Parlando prima con alcuni miei colleghi, mi hanno fatto notare che Federer ha vinto molte partite tirate, anche al quinto set. Contro Haas al Roland Garros nel 2009, contro Del Potro sempre a Parigi nel 2009, con Nadal a Wimbledon nel 2007, tanto per citarne tre, ma ce ne sarebbero altre. Ecco, con tutto il rispetto, in quelle partite Federer era talmente superiore che al quinto set nemmeno ci sarebbe dovuto arrivare, tanto per dirne una.
A Roger spesso non gli si riconosce nessun difetto, ma non è così, nella maniera più assoluta, e il suo alone di leggenda, per quanto sia giustificato dalla sbalorditiva bellezza del suo gioco, non deve impedire o mal tollerale una sana critica nei suoi confronti. Anche ingiusta, anche “cattiva”. Quella di Federer non è una questione di cuore, di coraggio, perché sia di cuore che di coraggio ne ha da vendere (non avesse una delle due cose, non se ne starebbe lì a 34 anni a inventarsi nuovi colpi o a cambiare modo di giocare per tentare di vincere ancora), ma è una questione di freddezza, che lui non ha e non ha mai avuto. Una cosa che probabilmente lo fa amare ancora di più, ma che in certe occasioni è un limite mostruoso. Non per nulla Djokovic è chiamato “RoboNole”, non solo perché sbaglia pochissimo e non concede quasi nulla sul campo, ma perché quando è il momento di spegnere le emozioni e di guardare metaforicamente negli occhi il suo avversario, quando è messo con le spalle al muro, il serbo non è secondo a nessuno. In finale tutti erano contro di lui. Tutti.
L’Artur Ashe ha avuto nei suoi confronti un comportamento che forse si vede al Parque Roca di Buenos Aires, quando l’Argentina gioca lì in coppa Davis. Novak ha guardato in faccia anche loro, tutti i 22.000 spettatori, ad uno ad uno, e non è arretrato di un millimetro. Concedetemi il termine: due palle fumanti così. Djokovic ha 7 anni in meno di Federer, e probabilmente in una partita 3 su 5 deve pensare, rispetto al suo più anziano rivale, molte meno cose. E pensare di meno uguale meno problemi. Equazione semplice. Ad esempio non deve pensare alla stanchezza (Nole potrebbe andare avanti a giocare per 10 ore, Federer è arrivato al quarto set che non ne aveva più), non deve pensare ad accorciare gli scambi perché ha più benzina dell’altro, non deve pensare a vincere per forza il primo set sennò “la partita si allunga e tante grazie”. E soprattutto non deve pensare di essere stato battuto le ultime due volte 3 su 5 a Wimbledon (si, a Wimbledon). Dunque, di partenza, in finale il vantaggio psicologico era tutto dalla parte del serbo, su questo pochi dubbi. E però, e però. E però dopo si inizia a giocare, e quando si gioca Federer lo fa meglio di chiunque altro. Soprattutto in questo torneo lo aveva dimostrato, eccome.
Lasciate perdere la SABR, era stato praticamente perfetto ad ogni turno. In finale, con Djokovic davanti, si trasforma. In peggio. Primo set giocato in maniera oscena, con la tensione a mille. Col “cagotto”, direbbe qualcuno. In tutto il torneo aveva concesso un totale di 15 palle break, nei primi tre turni ne aveva concesse già sei a Djokovic. Grazie, lo so da me che nessuno risponde bene come il serbo, ma è anche vero che la prima non entrava nemmeno a morire. Primo set perso, e si entra nel dramma. No, perché nel secondo set, sprecando anche lì un mare di occasioni e rimontando, riesce a portarlo a casa. Perché gioca da Federer: più aggressivo, più rischi, il tutto per tutto. Ma i sintomi ci sono: una voleè facilissima sbagliata su un break point, un dritto assassino mandato lungo sul set point (bentornata, Roma 2006). L’apoteosi nel terzo set: Nole in palese difficoltà, palle break sprecate, turni di servizio regalati da 40/15. TUTTI, dico, TUTTI i punti fondamentali sbagliati. Sono quei punti che svoltano la partita, quei punti che se sei in grado ti devi prendere, perché quello lì, dall’altra parte, il serbo numero uno del mondo, non ti regala mezza cosa, anzi. Ne ha preso uno? NO.
Quarto set accademia fino all’illusione (per i tifosi) delle due palle break sul 5-4 Djokovic. Giusto per prolungare un’agonia, una malattia, che tutti sapevano come sarebbe finita. I game che vanno dal 5-2 Djokovic al 5-4 Djokovic sono un sostanzioso aiuto alla tesi. Sono infatti questi i miglior game della partita di Roger. Quando non aveva più pressione, quando non aveva nulla da perdere. Arrivati sul 15-40, quando la pressione si tornava a fare sentire e quando la partita poteva tornare ad avere un senso… puff. Ti saluto e grazie. Federer ha chiuso la partita con un esilarante (si, esilarante) 4/23 sulle palle break. Molte annullate superbamente da Djokovic e dai suoi attributi, altre annullate splendidamente da Federer e dalla sua mancanza, di attributi.
Roger ha vinto tutto e di più nella sua straordinaria carriera, e lo ha vinto perché ha giocato e gioca a tennis meglio di chiunque altro abbia mai calcato un campo da tennis. Chiaro e semplice. Probabilmente con un carattere diverso, con più freddezza, sarebbe stato un tipo di giocatore diverso e non sarebbe stato così straordinario e spettacolare. Quello che è chiaro è però che non deve il suo curriculum alle sue “palle”, ma al suo braccio, al suo talento e alla sua devozione e al suo amore verso quello che fa. Ma quando incontra qualcuno che lo guarda dritto negli occhi e che di talento ne ha anche lui, va un po’ in confusione. Fino a perdere.
Non è una colpa, è semplicemente fatto così. Lo si adora per questo, perché è il suo tallone di Achille e dimostra che non è un robot, come quello che sta al di là della rete e che è fischiato da 22.000 persone pur essendo uno straordinario, straordinario uomo e giocatore, disposto pure a raccontare barzellette, a fare le imitazioni o le scenette per aumentare il suo indice di gradimento verso il pubblico. Federer insomma può anche essere uno splendido “fifone”. Uno splendido, adorabile fifone. E anche in questo, non c’è niente di male.