La parola del Direttore

US Open: Stephens e Serena, l’America del tennis vi guarda

Dal nostro inviato a New York

Gnocchi al pesto e due succhi di ananas. Si potrebbe persino partire da qui, per dire, e spiegare, quanto sia coraggiosa Sloane Stephens. Da un accostamento gastronomico che nessuno tenterebbe mai, sempre che abbia un minimo a cuore i propri succhi gastrici. Seduta a un tavolino in fondo al ristorante Pizza Napoli, al numero 122 di Russell Street, Melbourne, Sloane ha celebrato tutti i giorni il rito dell’improbabile unione fra il pesto e l’ananas, al fianco di David Nainkin, il coach. All’inizio da ospite sconosciuta, alla fine da autentica star del ristorante, autografi e foto con gli altri commensali fra uno gnocco e l’altro.

Tranquilli, non partiamo da troppo lontano. In quei giorni di Melbourne, Sloane staccò il biglietto per la top class del tennis. Somiglia a Serena, dicevano di lei, dopo il primo match. Sono buone amiche, continuarono a raccontare nel match successivo, spiegando come Serena avesse preso Sloane sotto la sua ala protettrice, un’ala molto grande e muscolosa potete immaginarla. Infine le due s’incontrarono, nei quarti, e Sloane superò Serena. Una Williams acciaccata, per dirla tutta, che in uno degli scambi iniziali si procurò una contrattura dolorosa. Continuò fino in fondo, però, ma solo per rispetto dell’amica. Meno carina, Sloane, agguantata la vittoria, mise da parte i molti buoni consigli ricevuti e spiegò che non vedeva l’ora di battere la Williams. Si sa, le ragazzine hanno un che di rampante che si sposa bene con la fretta di arrivare, meno con le buone maniere. E all’età di Sloane, anche Serena non era così tenera con le avversarie.

Le due si ritrovano qui, oggi. E l’America del tennis le guarda con un pizzico di batticuore e molta curiosità. Il movimento, si sa, trova sbocchi solo nel tennis femminile, e sforna atlete che rassicurano sulla continuità di una presenza americana al vertice del nostro sport, a bilanciare la quasi totale scomparsa di atleti da Top Class nel settore maschile, dove il solo Isner, al momento, sembra agganciato al carro dei più forti. Alison Riske che ieri ha spazzato via la solita inebetita Kvitova. La McHale che ha molti buoni colpi nel suo arsenale. Sloane ha fatto più in fretta delle altre. Numero 97 della Wta a fine 2012, numero 17 a fine Australian Open. “Se batti una leggenda, diventi una leggenda”, le ha scritto Shaquille O’Neal via sms. E pazienza se il seguito sia stato meno leggendario. Dopo Serena, oggi, c’è Sloane nei pensieri degli appassionati americani. La quinta nera che fa parlare di sé, dopo la grande Althea Gibson, dopo Zina Garrison, e dopo le due Sister Williams.

Ora, forse, Serena la considera meno amica. Forse, addirittura, la teme. Sloane, con la vittoria di Melbourne si è staccata dal carro. È lei a condurre in prima persona le sue scelte da tennista, temprata da una vita che prime di darle un po’ di tregua le si è rovesciata addosso con accanimento. Figlia di John, running back per sei campionati nella NFL, Sloane il padre non lo ha quasi conosciuto. Non ha fatto in tempo. Lui se n’era andato quando lei era appena nata, e si era fatto sentire solo anni dopo, quando una malattia degenerativa del sistema osseo lo stava ormai devastando. La volle conoscere, si videro qualche volta, poi lui trovò morte improvvisa in un incidente stradale. Aveva 43 anni. Sloane sedici e stava giocando il suo primo Us Open. Chiese un giorno di sosta per correre al funerale.

«Devi giocare con le carte che ti offre il destino», dice oggi Sloane. È la frase cui si ispira. Il destino che la riavvicina a Serena in questi Open. La Serena imbattibile. «Ma lo era anche a Melbourne», butta lì Sloane. E sembra quasi un avvertimento.

Daniele Azzolini

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