Agassi, Nadal, Blake e le "penne" del tennis

 

La perseveranza non è una lunga corsa; sono tante piccole corse una dopo l’altra.

 

E’ una delle tante citazioni presenti in “Breaking Back”, l’autobiografia di James Blake, una delle migliori mai scritte, perché “umana troppo umana”. James racconta di se stesso e del suo rapporto con il tennis, passando in mezzo a vicende tremende e bellissime, concentrandosi proprio sul breaking back, che come voi appassionati di tennis saprete, vuol dire togliere il servizio all’avversario dopo che lui lo ha tolto a te (ah, se solo avessimo la sintesi anglosassone!).

 

 Facile metafora esistenziale: quello che la vita ti toglie, vai a riprendertelo. E così ha fatto lo statunitense: il 2004 lo ha visto protagonista di una serie di eventi drammatici; si ruppe l’osso del collo cadendo durante un allenamento a Roma, mentre cercava di recuperare una palla corta. Perse suo padre a causa di un cancro non prima di contrarre il Fuoco di Sant’Antonio che gli provocò una parziale paralisi al volto.

 Cose che sapremmo anche senza consultare la sua autobiografia, certo: ma senza di essa non sapremmo come e perché James è riuscito a riprendersi tutto quanto. Grazie soprattutto all’educazione che ha ricevuto e agli esempi nella propria vita.

“Se dovessi chiedere a Dio il perché di queste brutte cose capitate a me allora dovrei chiedergli il perché di tutte quelle belle”. Logica che non fa una grinza, e che ci fa riflettere. Quello che qualsiasi libro in verità dovrebbe fare; eppure non è così scontato.

Le autobiografie tennistiche sono spesso bistrattate e considerate superflue, non necessarie, pubblicitarie e fittizie. Come sempre, bisognerebbe non generalizzare. D’altronde non tutti i libri sono buoni: anzi, quelli buoni devi proprio cercarli con il lanternino.

 Così capita con le autobiografie: figurarsi poi quelle sportive! 

Breaking back ti piace soprattutto per la testimonianza di una persona coraggiosa e un ragazzo solare: lo hai sempre riscontrato in campo, ti sorprende lo stesso leggendo quelle pagine.

 Spesso capita siano anche pubblicizzate male: è l’esempio di “Open”, forse tra le più belle autobiografie mai scritte. Andre Agassi è sempre stato un personaggio controverso e il modo in cui questo libro, scritto in realtà da J. R. Moehringer (vincitore del premio Pulitzer nel 2000), è stato presentato lasciava presupporre una serie di fantasie ricamate intorno alla vita del Kid di Las Vegas: il toupé, la metanfetamina, l’odio per il tennis. Tutti ingredienti e storie che stanno dentro a Open ma che sono solo accessorie: portante è invece il racconto della bellissima amicizia tra Andre e quello che poi sarebbe divenuto il suo Guru, Gil Reyes, dall’incontro scettico fino ai sacrifici e alle prove d’affetto che negli anni si sono scambiati. Il debole decennale per una Steffi Graf che se la tirava tanto e dall’alto del suo professionismo tendeva a vedere l’americano sotto una luce non adatta a quella della sua vita, così schematica, ordinata, quasi già scritta: due persone così diverse che si innamorarono diversamente. Lui inseguendola, lei arrendendosi.

 E poi c’è suo padre e il mostro spara-palle: un bambino nato e cresciuto con una missione, spesso buttato nella mischia troppo presto, un “odio” sviluppato verso uno sport imposto con violenza (di cui ci si sorprende anche, leggo in giro, con stupore), di un amore che nasce dopo, quando si inizia a capire, realizzare: solo dopo aver sofferto.

E una scrittura armoniosa, mai banale, intrisa di ritmo e originalità.
Le recenti autobiografie non sono al livello delle due citate: quella di Rafa Nadal ti permette di comprendere molte cose sul rapporto tra lo spagnolo e lo zio, di quanto sia stato costruttivo e distruttivo insieme: successi e fama che però hanno voluto il loro prezzo, reclamando paure e manie che ancora oggi Nadal non riesce a scrollarsi di dosso.
Scopre verità già parecchio evidenti (a chi vuol vedere, almeno): il coaching sul match point a Flushing Meadows, probabilmente non necessario, teso a suggerire dove servire contro Djokovic. Non rimane però nell’immaginario comune.

 Philippe Lejeune afferma che l’autobiografia altro non è che “il racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità”.

Se fosse così sempre, inondateci pure. Di tutte queste storie abbiamo bisogno per vedere il tennis con occhi diversi.

 

 

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