di Salvatore Sodano C’era un ragazzo che come me… amava i Beatles il Rock&Roll… e il tennis? Forse, ma scavando nel fotocatalogo dei vip, a disposizione nella banca dati, di Morandi tennista non c’è traccia. Allora? Cosa c’entra Morandi con il tennis, a parte le circostanze che spesso lo hanno visto esibirsi negli stadi del […]
Fra i molti meriti di Federico Luzzi, che ricorderemo con grande affetto il 25 di ottobre, per il quinquennale della tragica scomparsa, ve n’è uno troppo spesso sottaciuto, forse per via dell’eccesso di falso moralismo che ottunde i sensi di tutti noi. Ed è quello di aver sparato un cazzottone in bocca a Daniel Koellerer. Applausi!
A Roma, dove le facce sono facciose, i gesti vanno al cuore del problema, e le parole volano come il polline fra gli alberi del lungotevere, uno come Koellerer sarebbe passato per l’infamone di turno. In campo lo era, eccome se lo era. Provocava in malo modo, da puzzone autentico. Mancava di rispetto, ed era la cosa che più faceva impazzire gli avversari. Alla fine l’hanno messo alla porta, radiato, per aver “aggiustato o provato ad aggiustare il risultato di un evento”. Quanto di peggio, come si vede.
Eppure, nella civiltà in cui la comunicazione è scesa a livello di rumore, nella quale trovi sempre qualche fesso disposto a credere che non importa che se ne parli male, purché se ne parli, in questo casino di vita che ci siamo creati nel quale le notizie bruciano in ventiquattro ore, e non abbiamo il tempo nemmeno per capirle, davvero speravate di sottrarvi al ritorno sul palcoscenico di uno come Koellerer? E davvero pensate che l’infamone si fermi qui, e si accontenti di frullare la sua poupou in direzione dei soli Nadal e Ferrer?
È terribile il nostro mestiere. Perché ci obbliga a pubblicare il Koellerer pensiero, e ci costringe a scrivere a latere che da uno così non compreremmo nemmeno una limetta per le unghie. Le notizie vanno date. Le notizie vanno poi spiegate. Noi lo facciamo. E invitiamo i lettori a capire, a cogliere i distinguo. La notizia: Koellerer dice che Nadal e Ferrer si dopano. Non ha prove per dirlo. Il commento: noi non crediamo a quello che dice. Il seguito: uno come l’austriaco può proseguire all’infinito, se solo scopre che ne è valsa la pena. Nel circuito challenger, ai suoi tempi, girava voce che Koellerer ricevesse soldi da alcuni sponsor per comportarsi male. È una boutade come la sua su Nadal, né più né meno. Però, se proprio vi va di saperlo, noi crediamo più a questa che alla cialtronesca uscita contro Rafa e Ferru.
Se Rafa ha un problema, questo non si chiama Koellerer. Ma sbaglierebbe Rafa a pensare che un Koellerer qualsiasi non riconduca i discorsi al nocciolo del problema. Il quale ha assunto ormai proporzioni che dovrebbero preoccupare chi sta intorno al tennista. Troppe voci. Troppi spifferi. Troppi dubbi intorno a lui, e i dubbi al mondo d’oggi fanno presto a tramutarsi in grevi certezze, in vulgata. Parlano in tanti e vanno sempre a titillare le stesse corde. Da Christophe Rochus a Daniel Koellerer. E il rapporto fra Spagna e doping non fa che alimentare le fiamme.
Così non va. Ma non sta a noi consigliare come difendere Rafa, né come sottrarlo al vento dei dubbi. Non è nostro compito suggerire… Noi prendiamo atto. E al primo posto del nostro credo garantista, lassù, in cima a tutto, c’è che non esistono prove provate contro Rafa. E non è poco… Avremmo agito diversamente in talune circostanze, è vero, ma questo resta nell’ambito dei nostri pensieri, che tutt’al più traduciamo in commenti, se vi è attinenza. Penso al Rafa troppo magro riemerso dal primo stop, nel 2008, che tutto il mondo dei media ribattezzò “il fratello di Rafa”. L’unica risposta che trovammo fu che era esattamente quello di prima, e vabbè. Penso anche all’uso delle “uova miracolose”, le macchine rigeneranti che Djokovic per primo sdoganò. Vi rinuncerei a prescindere. Ciò che non è doping oggi potrebbe esserlo domani…
Ma ammetto che siano tempi difficili, questi. Ammetto che non sia facile rimontare la corrente impetuosa delle certezze improvvisate. Il nuovo doping, occorre prenderne atto, è nell’aria. Simile a un virus. Non entità biologica con caratteristiche di parassita, e nemmeno software malvagio che si propaga tramite moderni sistemi wireless. È un pensiero, piuttosto. Un dubbio. Talvolta una comoda banalità. Peggio, una certezza fondata su un insieme infinito di perplessità. Ma come i virus biologici e informatici si propaga veloce, contagia chiunque ne venga a contatto. Occorrono anticorpi al tungsteno per resistere, certezze granitiche. E l’unico antibiotico è la nostra solidità garantista. Ma il nuovo doping sa ammaliare come ognuna delle più facili risposte che cerchiamo alle nostre domande. Ha effetto immediato. E qualche volta coglie persino nel segno.
Un tempo erano chiacchiere da bar. Ora sono chiacchiere da browser. Su internet il nuovo doping ha largo accesso. Nei commenti a margine degli articoli, dei blog qualche volta un po’ troppo spensierati, svestiti di ogni regola per indossarne una sola, pericolosissima a volte, del dire la prima cosa che passa per la testa, quasi fosse garanzia di sincerità, e la sincerità a sua volta corrispondesse alla verità.
Tutto è doping, ecco la nuova frontiera della miscredenza. E non v’è riparo… Sotto questi colpi lo sport vacilla. Non esiste risultato che, alla prova di una simile lente, assuma connotati limpidi. Come può un “vecchio” ragazzo di 42 anni balzare in testa alla Vuelta e dominarla, reagendo con garretti da ventenne alle minacce di chi i venti anni li ha davvero? E come fa un tennista costretto in officina riparazioni per otto mesi, a tornare immediatamente ai suoi massimi livelli, al punto da soggiogare quegli avversari che in passato, più volte, l’avevano a loro volta domato?
È banale pretendere che il doping esista nella misura in cui esso venga provato e circostanziato? Sembra di sì. Ma lo sport non aiuta, e il caso Armstrong fa giurisdizione. Mai “pizzicato”, eppure dopato per sua stessa ammissione. Uno dei casi nei quali le chiacchiere avevano ragione d’essere. Ma quanti altri? Internet dà via libera alle ipotesi, e siamo costretti a chiederci se tanta libertà d’espressione non diventi talvolta una gabbia per chi è costretto a subirla.