Dal nostro inviato a New York
Sono trascorsi cinque giorni, ma non arrivano segnali. Le ricerche continuano, senza un attimo di sosta. Vi sono coinvolti i 256 tennisti presenti agli Us Open, e i quarantamila spettatori giornalieri di un torneo che viaggia su numeri da record, con l’obiettivo dichiarato di battere i 720 mila di tre anni fa. Tanti quanti ne fa la Juventus in una decina di match nel suo Stadium. Cenni di speranza si sollevano, qua e là, e allora la voce si sparge, il tam tam risuona. L’hanno trovato finalmente. Ma si tratta di sparute apparizioni, improvvisi barbagli di gloria, ingannevoli baluginii di un desiderio comune. L’unica notizia da dare è quella di sempre. Da cinque giorni, agli Us Open, è scomparso il bel tennis.
I Fab Four non incoraggiano, al momento, fausti presagi. È lo Slam di fine anno, e loro hanno giocato più degli altri. Di favoloso vi sono le vestigia del passato recentissimo, ma s’intuisce lo sforzo del tenerle assieme, con il supporto di ginocchiere rinforzate e cinture articolari. È un tennis incerottato, liso, generoso finché si vuole, ma stento. Anche Djokovic, che non vince dal torneo di Monte-Carlo e sembrava essersi trattenuto nei tornei estivi sul cemento che precedono questi Open, appare involuto, fin quasi a mostrarsi confuso. Basta un Benjamin Becker, ormai scaduto a giocatore di challenger, per fargli venire le traveggole, in un primo set giocato più con la testa che con le braccia e i polsi. Si arriva al tie break senza colpo ferire, e lì finalmente l’uomo della dieta gluten free, il paladino delle immersioni nel magico “uovo” rigenerante (un macchinario che sta prendendo piede, a quanto è dato sapere), decide che è meglio mettere qualche grammo di distanza fra lui e un avversario che medita di avvicinarlo sempre di più. Vince in tre, ma è normale amministrazione. Anche lui non pare esaltarsi. «Qui è difficile giocare», sentenzia.
Non è piaciuto Murray, Nadal sta sulle sue, un po’ meglio Federer, che se non altro tre o quattro incantesimi li ha regalati, e su di essi è venuto giù lo stadio, con acclamazioni degne di una grande impresa. Ma è lui stesso a tenere bassa l’asticella. «Ogni match che gioco e vinco mi permette di fare un passo avanti, di mettere in cascina un po’ di tennis». Il mal di schiena che lo ha condizionato per i primi sei mesi della stagione (la peggiore, da che Federer è Federer) sembra acquietato, ma non è ancora un ricordo. Herr Più (tranquilli, lo chiamano così a Roma) gioca ancora preoccupato, di buono c’è che può di nuovo permettersi tutti o quasi i movimenti, e non sbaglia più gli smash, come l’avevamo visto fare nelle giornate più nere della sua stagione.
Il primo match di lusso è per Nadal, negli ottavi con Isner. Un brutto cliente il pivot americano. Volandri, che ci ha giocato contro in primo turno sostiene che si tratti del prodromo di un tennis futuro che porterà questo sport a cambiare faccia. «Fra tutte le discipline largamente internazionali», sostiene Filippo con accurata scelta delle parole, «il tennis aveva mantenuto una sua prerogativa, quella di offrire chance a una vasta tipologia di atleti. Oggi si va invece verso una sorta di Nba Tennis. Atleti di due metri, racchette da superuomini e superfici che attizzano le loro qualità. Per fortuna sono a fine carriera. Mi chiedo se ci sarà ancora spazio, nel futuro, per quelli come me, alti poco più di un metro e ottanta e nella norma quasi in tutto». Bella domanda. Quasi quanto quella iniziale. Dov’è finito il bel tennis? Forse tornerà con gli scontri diretti. Forse il prossimo anno, quando gli atleti che percorrono trecentomila miglia aeree ogni anno, saranno un tantino più riposati. Forse.
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