Gli Us Open si avviano alla fine della prima settimana e a mo’ di bilancio avanzerei una provocazione. Match emozionanti se ne sono visti, anche in campo femminile, dove fra le ragazzine (quante afro-americane, l’effetto Williams è reale!) c’è molto fermento. A preoccupare è piuttosto l’immediato futuro degli uomini:
ciao maschio campione?, si chiederebbe direbbe Marco Ferreri (ammesso che qualcuno se lo ricordi).
Dietro i Fab Four, fra i quali rientra per decreto anche Federer nonostante lo scivolone in classifica, infatti non c’è più un solo gradino: c’è un abisso. La new-wave stenta, e molto, ad imporsi, e ad avvantaggiarsene sono gli ultratrentenni (gli ultracorpi?). Robredo, Haas, Hewitt che ieri ha stroncato Del Potro, sono miracoli di ortopedia, hanno muscoli e cartillagini che stanno insieme con i cerotti, eppure sono lì che vincono, si battono, rubano il palcoscenico ai giovani. Tempra d’acciaio, chapeau.
Il ritorno di fiamma dei Goldies Oldies va ad alimentare il dibattito che da anni impazza fra chi sostiene che Federer sia il più grande di sempre e chi lo svaluta sostenenendo che, Nadal a parte, non ha avuto grandissimi rivali. Ma il problema oggi non è capire se i coetanei di Federer fossero più o meno forti, il problema è che i giovani non ci sono proprio. Dietro i Fab Four e la Banda dei Vecchietti Terribili occhieggia solo una leva di talenti acerbi, tanto che in classifica e nei grandi tornei prospera una piccola borghesia del talento fatta da giocatori che si sono costruiti la carriera nei challenger. In altre parole: non fatichiamo a trovare l’erede di Federer e Nadal, fatichiamo a capire chi sarà il nuovo Baghdatis (vedi alla voce Anderson).
Avanzo quindi una modesta proposta: dopo il ritiro dei Fab Four lasciamo in bianco i posti dall’1 al 9, in attesa che si presenti un talento all’altezza. I vari Raonic, Janowicz, Dimitrov, Nishikori, Paire (per non parlare di Tomic) al momento dal n.10 in poi. Troppo duro? Forse. E spero tanto di sbagliarmi.
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