Quite Please! Le prime volte a Wimbledon

E’ un anno speciale, il 2012. Aggettivo inflazionato, me ne rendo conto, ma difficile trovarne altri più opportuni.

Tennisticamente è speciale perchè con tutta probabilità non capiterà mai più di vedere giocare due volte a Wimbledon nello stesso anno. E qui dunque viene fuori un altro aggettivo, perfino più opportuno e inflazionato: unico.

Unico al di là del risultato, della qualità, del tifo e dei protagonisti.

Ma se non ci fossero, niente di così speciale e unico sarebbe possibile. Venti giorni dopo gli stessi attori (o quasi) si ritrovano a lottare nella Mecca del tennis per una medaglia olimpica, che non sarà il Santo Graal come il luccicante aureo trofeo dell’All England Club, ma che in alcuni casi arriva a renderti eroe nazionale.

Wimbledon conferisce al torneo olimpico tennistico un significato decisamente maggiore rispetto ai precedenti, senza se e senza ma.

A livello maschile l’attesa, anche in assenza del “defending champion”, ovvero Rafa Nadal, è tutta per il numero uno del mondo, Record Man assoluto di questa particolare abilità: Roger Federer.

 

Federer aspetta queste olimpiadi a Wimbledon da più di quattro anni; devoto a Church Road fin dai primi brufoli in faccia, Roger non riesce a trovare niente di più attraente di vincere ciò che gli manca -la medaglia d’oro in singolare- nel luogo che più ama al mondo, il Centre Court che ha visto esplodere più volte il campionissimo elvetico (a diciotto anni nel torneo Junior, a diciannove contro Sampras in una partita epica, a ventuno il suo primo Slam). E’ una specie di fissazione per Federer, che arriva dal trionfo in un torneo dello Slam dopo due anni e mezzo di digiuno. Ha trovato la chiave; o meglio, l’ha ritrovata. Nei momenti decisivi, contro schiena, Djokovic e Murray. Ma la pressione non va sottovalutata: ha certo mostrato in tutti questi anni di saperla reggere e gestire al meglio, ma Federer è un giocatore emotivo, una persona emotiva. Ha fede nella vittoria ma ha anche paura di perdere. E due set su tre, sull’erba, basta un cattivo tabellone con dei primi turni complicati per far svanire un sogno, un favorito, una chimera lunga anni.

 

Un po’ più in ombra parte invece Novak Djokovic; non può che essere un bene per il serbo, a questo punto. Djokovic, ragazzo e giocatore estremamente intelligente, sapeva benissimo di non poter ripetere le eroiche imprese dell’anno passato. Ma anche con questa consapevolezza, non è riuscito comunque a superare quel limite che si pone tra fiducia e sfiducia, a far valere in campo la consapevolezza di essere il migliore al di là di imprese eroiche. E’ più facile farsi trascinare dal vento a favore che correre in assenza di vento. Questa è stata la difficoltà di Nole in questa stagione, che rimane ancora ottima: uno Slam, un Master Series, una finale a Parigi e una semifinale a Londra. Probabilmente firmerebbe chiunque. Ma sono certa che Djokovic ha imparato la lezione dell’ambizione: per stare in alto occorre una fame senza eguali. Una passione per il tennis che non ha fine. Djokovic si trova lì, tra ciò che ha ottenuto e ciò che ancora vorrebbe. Sta a lui decidere se rimanere un campione o salire un altro gradino verso la leggenda. Se c’è un torneo che può svelarlo, è questo: per una medaglia d’oro i serbi potrebbero farlo imperatore. E sarà una spinta non da poco per Novak.

L’ultimo Wimbledon però ha cambiato un giocatore più di ogni altro: Andy Murray è riuscito finalmente a farsi amare dai propri connazionali. Anche se ha perso? Sì, anche se ha perso. Perché conta anche il modo in cui perdi, in cui ti batti, in cui dimostri che ci tieni. Le sue prime tre finali Slam Andy non le ha praticamente giocate: non ha avuto paura di vincere o di perdere, ha avuto paura di giocare. La sua ultima finale contro uno dei giocatori più forti di tutti i tempi, soprattutto a Wimbledon, ci ha mostrato un Murray diverso. Spinto da un obiettivo, le idee chiare, propositivo. Con i propri limiti, che non mancano a nessuno. Ma se l’è giocata, e probabilmente contro chiunque altro l’avrebbe anche vinta: quando uno più forte di te inizia a giocare il suo miglior tennis nei momenti decisivi, però, non puoi fare nulla.

Sono sincera: non vedo Andy tra i favoriti per la medaglia olimpica. Due set su tre è davvero troppo rischioso per lui, anche se dipenderà naturalmente molto dal tabellone che dovrà affrontare. Ma Murray è un diesel, non uno sprinter. E avrà anche più pressione del solito.

 

Occhio a Tsonga e Berdych: sui verdi prati trovano sempre l’ispirazione giusta, e hanno il tennis che occorre per portare a casa almeno una medaglia. In giornata possono battere chiunque, in partite come quelle che arriveranno. E le olimpiadi sono soggette da sempre a molte sorprese.

 

E saranno brutte gatte da pelare i Nalbandian, Karlovic, Kohlschreiber nei primi turni del torneo. Gli ammazza-big per eccellenza non staranno a guardare, e questa è l’essenza del tennis, la sua bellezza, che ultimamente viene a mancare.

 

Fatemi spendere un ultimo pensiero per Tommy Haas: il fatto che non possa esserci per delle stupide regole federali tedesche rende il Wimbledon olimpico un torneo più povero, che già risente delle diverse costrette defezioni di molti.

 

Rossana Capobianco

Dalla stessa categoria