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13 Lug 2025 06:59 - Wimbledon
Wimbledon e la finale più attesa: Alcaraz e Sinner si ritrovano sul Centre Court
di Stefano Tardi
“Il tennis è più importante di qualsiasi giocatore, ci saranno sempre campioni e ognuno mostrerà la strada. Nuove stelle appariranno ed eccole qui. Ci sono due giocatori ben al di sopra degli altri, si rivelano essere grandi campioni e faranno il loro percorso”. È passato un mese da quando il ventidue volte campione slam Rafael Nadal si è espresso in questi termini, interpellato sulla finale tra Carlos Alcaraz e Jannik Sinner che ha reso immortale un’edizione del Roland Garros che sarebbe comunque rimasta confinata nella storia per aver regalato alla memoria uno dei momenti più emozionanti della storia dello sport: ovvero il tributo del Phillippe Chatrier al quattordici volte Re di Parigi. Un’impronta indelebile lasciata nel cuore degli appassionati, prima ancora che su quella targa celebrativa pronta a ricordare ed a tramandare in eterno chi sia stato il più grande a calcare quella terra rossa.
Una carriera leggendaria al cui cospetto le parole del fuoriclasse maiorchino potrebbero apparire come un’estrema concessione all’umiltà che lo ha sempre contraddistinto, ma che a pensarci bene (in fondo) non sono altro che una lapalissiana constatazione di una realtà ciclicamente destinata a ripetersi. Perché proprio Nadal, lo scorso 8 giugno, ha visto il suo giovane connazionale eguagliarlo mettendo in bacheca, come aveva fatto lui stesso diciassette anni prima, il suo quinto slam all’età di 22 anni, 1 mese e 3 giorni. Corsi e ricorsi storici, passaggi di consegne divenuti iconici come quello più spesso ricordato, ovvero il successo di Roger Federer su Pete Sampras dell’estate 2001, con quest’ultimo costretto pochi anni dopo il suo ritiro a vedersi superato in due record che sembravano allora inattaccabili: dai Big Three nel numero assoluto di slam conquistati e dal solo fenomeno svizzero anche nei trionfi a Wimbledon (arrivati ad 8 nel 2017).
Storie di Tennis, pronte ad essere confrontate e raccontate, come quelle a cui stanno dando vita i due talenti più luminosi tra quelli che fin qui hanno visto la luce nel nuovo millennio, pronti a sfidarsi per la seconda finale slam consecutiva. Londra dopo Parigi (come prima di loro Federer e Nadal nel 2006, 2007 e 2008), per continuare a spartirsi il bottino dei major (tre a tre negli ultimi sei a partire dall’Australian Open 2024). Due traiettorie diverse che il destino (oltre alla schiacciante superiorità quasi sempre mostrata sui verdi prati dell’All England Club) ha voluto tornassero ad incrociarsi, nonostante le insidie. Gestite sempre con autorevolezza dall’allievo di Juan Carlos Ferrero, forte di una striscia di ventiquattro vittorie consecutive in stagione, costretto agli straordinari (per quanto mai vicino alla sconfitta) solo all’esordio dallo splendido canto del cigno di un Fabio Fognini riuscito nell’intento di prendersi un’ultima standing ovation sul Centre Court prima di salutare il palcoscenico.
Chi ha rischiato davvero, per approdare alla sua prima finale a Wimbledon, la quarta consecutiva a livello slam, è stato il numero uno del mondo. Un traguardo importante, quello del non ancora ventiquattrenne altoatesino, diventato l’undicesimo giocatore dell’era open ad arrivare in fondo in tutti e quattro i major dopo Agassi, Courier, Djokovic, Edberg, Federer, Laver, Lendl, Murray, Nadal e Rosewall. Eppure è ragionevole pensare che, in questo momento, nella testa del leader del circuito ATP i dubbi superino le certezze. Presentatosi a Church Road nel silenzio assordante che ha avvolto la decisione di separarsi dal preparatore atletico Marco Panichi e dal fisioterapista Ulises Badio, agli ottavi di finale Jannik è stato sorpreso da una delle migliori espressioni mai esibite sull’erba londinese da Grigor Dimitrov, uscendone indenne solo dopo lo sfortunato ritiro del bulgaro, senza sapere se sarebbe stato o meno in grado di trovare la soluzione al problema.
Contro questo Alcaraz, reduce da venti vittorie consecutive nel tempio del tennis mondiale e che in carriera vanta sull’erba più titoli (4 – due trionfi ai Championships ed altrettanti al Queen’s) che sconfitte (appena 3, a fronte di 35 successi), servirà necessariamente il miglior Sinner. Così come sarà prezioso ogni accorgimento tattico che il duo Vagnozzi-Cahill riuscirà ad escogitare per provare a contenere quelle ben note esplosioni di talento che al loro verificarsi rendono Carlitos praticamente ingiocabile in quei momenti. Con la consapevolezza che il top spin dello spagnolo su erba farà meno male, così come che il drop shot su una superfice dove la palla rimbalza meno possa essere ancora più letale. Ed allora bisognerà capire se il servizio potrà diventare quella chiave che a Parigi non era stata, così come se la pressione esercitata da Jannik con i colpi di inizio gioco, su una superficie più veloce, sarà in grado di togliere al ventiduenne spagnolo il tempo di dare libero sfogo al suo estro, per cercare di soffocare un istinto creativo per natura poco incline a lasciarsi ingabbiare. Soprattutto, sarà importante non pensare alla striscia di cinque sconfitte consecutive subite negli ultimi scontri diretti e, perché no, appellarsi all’unico ricordo fin qui condiviso dai due sull’erba di Wimbledon quando, nel 2022, Sinner prevalse in quattro set.
A prescindere da tutto, sarà uno spettacolo da apprezzare e godersi dal primo all’ultimo punto. Magari oltre il pur legittimo tifo, che rischia però di banalizzare, distorcere e privare dei suoi petali più preziosi un racconto sbocciato quasi dal nulla. Quello di una nidiata scesa dal firmamento per riallacciare una trama che si stava sfilacciando, venuta a riscattare il fallimento della generazione nata negli anni ’90, sportivamente quasi perduta perché mai in grado anche solo di avvicinare i fasti degli immediati predecessori ed ormai praticamente auto consegnatasi all’oblio, schiacciata dall’inarrestabile ascesa dei nuovi fenomeni.
Perché ogni epoca avrà i suoi idoli, campioni che con le loro gesta avvicineranno a questo sport nuovi appassionati che, dopo essere stati sedotti dalla sua incomparabile capacità di produrre momenti di bellezza destinati a riempire pagine di letteratura, lo ameranno così tanto da non poterne fare a meno neanche dopo averne sofferto la crudeltà nel saper infliggere le più dolorose sconfitte. Per la sua stessa drammatica natura con cui il Tennis sa trasformare una singola partita (e poco importa che si giochi nell’intimità di un circolo vicino casa piuttosto che nella grandiosità dell’Arthur Ashe Stadium) in una metafora dell’esistenza, là dove introspettivamente davanti ad una rete ci si sente più a nudo che di fronte ad uno specchio. E perché in fondo anche adesso, per quanto come nei cliché più abusati che l’umanità ricordi i nostalgici di ogni età siano soliti rimpiangere il passato, sempre citando Rafa “questa è la realtà, il tennis è in buone mani”. Comunque vada a finire stasera.