20 anni di successi: il video tributo del mondo del tennis a Rafa Nadal
09 Set 2020 10:39 - Commenti
Due o tre cose che restano da dire sul caso Djokovic
Ma alla fine la squalifica di Djokovic è giusta o no? La strana giuridisdizione del tennis.
di Roberto Salerno
Il fatto è noto: Djokovic subisce il break all’undicesimo game del primo set contro Carreno Busta, dopo aver mancato nel decimo tre palle brek consecutive ed essere rovinosamente caduto sulla spalla sinistra, tanto da aver avuto bisogno del fisioterapista, nel secondo punto del game perso a 15. Il serbo, frustrato e arrabbiato, si avvia verso il cambio di campo e scaglia la pallina che i tennisti tengono in tasca nel caso di dover giocare il secondo servizio verso i teloni di fondo campo. La palla colpisce la giudice di linea alla gola facendola cadere e dopo qualche minuto di discussione il numero 1 del mondo viene squalificato per, si legge nel comunicato, “per aver colpito la palla in modo pericoloso e per essersi mostrato disinteressato alle conseguenze che potevano derivare dell’averla colpita” (traduzione libera, ma è quello il punto).
Il dibattito che ne è conseguito, usiamo un eufemismo, non è stato un esempio di ordinata limpidezza. Ci sono quelli che dicono “il regolamento parla chiaro”; quelli che dicono “ma voi che criticate non avete sbagliato mai?”; quelli che “non puoi trattare Djokovic come fosse uno qualsiasi”; quelli che “appunto perché non è uno qualsiasi” e chissà cos’altro. Forse possiamo tralasciare alcune suggestioni oniriche o psichedeliche del tipo “il giudice di linea odia Nole e quindi non si è scansata” o “la tv ha accelerato le immagini per trasformare un seplice passaggio in una cannotata” e focalizzarci su alcune questioni che tutto sommato sono meno banali di quel che possono apparire, o almeno così pare a noi.
Togliamo subito l’elefante dalla stanza. Djokovic, in questi due ultimi anni, è riuscito a polarizzare il discorso attorno a se. Se non c’è peggior destino che essere ignorati si può dire che il serbo da questo punto di vista è a posto. Odiato da un’alta percentuale di tifosi e forse da una più alta ancora di autodefinitesi “addetti ai lavori” il tifo contro catalizzato dal serbo ha pochi precedenti nel tennis. Lungamente preparato da nadaliani e federeriani l’aspetto viscerale che consente di identificarsi, magari a contrario, col fuoriclasse di turno è esploso contro chi è arrivato ad essere un incubo per entrambi. A differenza poi di Federer e Nadal, che se non si può dire siano amici ma per convenienza o altro non fanno troppa fatica a mostrarsi insieme, Djokovic è spesso controcorrente, col paradosso che in molti credono che lo faccia per mostrarsi simpatico, per entrare in sintonia con un misterioso “sentire” comune. E Djokovic poi non si risparmia, preferisce sbagliare, è sovente incomprensibile ma più spesso disegnato come se, tanto è granitico in campo quanto, altro paradosso, lo è nell’esprimere dubbi su questioni che la classe media, l’ignorante, eternamente conservatrice classe media occidentale pensa risolte da chissà quale istituzione “autorevole”. Quali che siano le opinioni individuali il risultato è che raramente si è visto un uomo solo al comando così inviso agli stadi di mezzo mondo. Stadi che contravvenendo, non tanto a chissà quale realtà quanto all’immagine che il tennis tende a dare di sè – riuscendoci niente, ma questo è altro discorso – dovrebbero applaudire il vincente e consolare il perdente.
Una situazione del genere sembra fatta apposta per polarizzare ulteriormente le posizioni, perché non c’è regolamento che tenga, soprattutto in uno sport che tende molto spesso ad una sorta di gentleman agreement più che all’impersonalità della regola. Pensate a quella sulla Time Violation, stiracchiata a seconda che tu sia in un torneo di periferia o su un campo secondario, su un centrale, in un primo turno, in finale, in una situazione di punteggio, Nadal, Federer, Rublev. Oppure alle libertà che i giocatori si prendono con i vari giudici, chi non ricorda il caso di Serena nella finale contro Osaka proprio allo US Open? Se tutto è soggetto a interpretazione figuriamoci le regole di uno sport che dice espressamente che sono giudice di sedia e supervisor a decidere se squalificare o no un giocatore, a valutare se quell’atto meriti il warning, il penalty point o la squalifica. Nel caso di Djokovic il Supervisor ha detto che ne hanno parlato, Djokovic ha potuto spiegare la sua posizione e sembra quasi che alla fine la decisione sia stata comune. Del resto poi Djokovic ha espressamente scritto e detto che la decisione è quella corretta, cosa che non ha impedito agli hater di accusarlo di un misterioso opportunismo.
La versione riportata dalla USTA non parla di una cosa abbastanza curiosa. La colpa di Djokovic è di non essersi sincerato, nel momento di stizza, che il suo gesto non fosse pericoloso. Ne consegue che se avesse scagliato la pallina lontano dal giudice la pena sarebbe stata più lieve. Ma quanto più lontano? Se la sfiorava? Se possono sembrare domande capziose pensate a quanto successo a Bedene la settimana prima, con la pallina che colpiva il cameramen ma in modo non particolarmente pericoloso, o per lo meno così ha detto la “vittima”. E se fosse stato colpito alla gola? E se la giudice di linea fosse stata più rapida nello scansarsi? Sarebbe inverosimile pensare alla squalifica, eppure il gesto sarebbe stato identico. In buona sostanza la “gravità del reato” è data anche dalla capacità della “vittima” di avere buoni riflessi o magari di non essere distratta.
Tutto questo sembrerebbe funzionare quando si è in numeri particolarmente ristretti, quando si condividono valori, comportamenti, pratiche. Ma in un ambiente ipercompetitivo come lo sport professionistico che tipo di unità si può relamente trovare? Non sembra esserci una qualche soluzione al rebus, perché l’idea di squalificare qualcuno per un gesto è inverosimile ma lo è anche quella di lasciare in campo uno che per disattenzione rischia di fare molto male a qualcuno. E non si risolve col generico richiamo ai “sacri valori dello sport”, che esistono solo “nella testa di chi ha passato una triste gioventù”. Secondo un vecchio adagio lo sport, più che formare il carattere, lo rivela e il mondo non è fatto per giudicare tutto e tutti con una qualche equanimità. Così, anche la prossima volta, sarà il caso a decidere. Del resto non è con un nastro sul match point che si decidono le partite?