L’insensatezza di non giocare a tennis

Anche il tennis ha subito gli effetti dei provvedimenti presi per arginare l'epidemia di coronavirus. Ma davvero è necessario questo delirio?

È improbabile che Nadal e Djokovic, lontani 15 mila chilometri uno dall’altro potessero rendersi conto che prima di tornare a giocare una partita seria avrebbero dovuto attendere mesi, forse addirittura un anno. Il 29 febbraio né in Messico né a Dubai si erano verificati infezioni provocate dal virus con quella sigla che abbiamo imparato a conoscere e che il solo evocare ormai ha l’effetto di provocare terrore: Sars-CoV-2.

La risposta del governo del tennis, guardata a due mesi di distanza, ha perso quell’aura di incertezza che sembrava predominante in quei giorni convulsi, con i tornei che confermavano, smentivano, rimandavano, pensavano a restrizioni, e poi inesorabilmente chiudevano. E a parte la parentesi della Davis, dal 7 marzo a tennis non si è più giocato.

Ora, se è più che comprensibile la necessità di evitare in tutti i modi gli affollamenti sin dal primo momento non si è capito bene cosa c’entrasse con l’affollamento la partita in se. Per quel che si sa del virus, si propaga esclusivamente se una persona infetta, parlando, trasmette all’altra queste particelle che muoiono dopo circa un metro di percorso. C’è una seconda possibilità di prendere il virus e cioè toccando un materiale su cui precedentemente una persona infetta ha parlato o sputato e portando poi le mani agli occhi al naso o alla bocca. Il tennis si gioca prevalentemente ad una distanza uno dall’altro di circa 25 metri anche se i giocatori possono avvicinarsi a rete in rarissime occasioni – fra l’altro ormai quasi inesistenti nel gioco moderno. Entrano in contatto soltanto quando si stringono la mano a fine partita e hanno l’abitudine di entrare in campo insieme.  Insomma, se è ragionevole per il pubblico, è un mistero come due giocatori con una racchetta in mano debbano trasmettersi il virus.

Naturalmente questo sposta poco il problema dei tornei. Senza pubblico probabilmente non vale pena neanche fare un allenamento agonistico, figurarsi giocare. Ma per quale motivo questo significhi che anche due giocatori di club non possano tirarsi due palle non è dato a sapere. C’è di più. A due mesi di distanza dai primi casi alcune cose sono ormai note. Per esempio che il virus predilige persone di una fascia d’età molto alta, oltre i 60 anni, e che comunque presentano delle patologie pregresse, cioè stanno già male. Non è esattamente il profilo tipo di un giocatore di tennis, sia professionista o dilettante. L’ultimo DCPM, altra sigla che ci è diventata tristemente familiari, ha aggiunto delirio a delirio. Si può tornare a giocare ma soltanto se il tuo allenamento è di “interesse nazionale”. E questo lo decidono il CONI e le federazioni. Delle due l’una: o è pericoloso e ti chiedo di sacrificarti e rischiare di prenderti il virus per un misterioso “interesse nazionale”; oppure non lo è, ma allora non si capisce perché Berrettini si può allenare e il povero 2.6 invece no, deve stare chiuso a casa.

Abituati a parlare di tennis fa un po’ specie dover entrare nei meandri di provvedimenti illogici del tutto slegati da una semplice analisi dei dati, neanche troppo sofisticata. Il risultato è quello che ormai vediamo da quel 29 febbraio: terrore e silenzio. Che pena.

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