Naomi Osaka, la chiusura del cerchio nell’abbraccio con il padre

Una hāfu (ハーフ) che trionfa in uno stadio pieno di giapponesi ad acclamarla. Una vittoria anche per i tanti risvolti difficili nella storia dei suoi genitori, con la madre cacciata dai genitori quando rivelò la relazione con il futuro padre di Naomi, "lo straniero", suo coach a Osaka in una settimana molto speciale.

Come Bianca Andreescu a Toronto, lei che abita a 20 minuti dal complesso tennistico, nella periferia di Mississagua, ora Naomi Osaka trova gloria a Osaka, lì dove nacque il 16 ottobre del 1997. Il torneo giapponese è non solo inferiore come valore rispetto a quello canadese ma è anche di molto inferiore ai tre titoli conquistati fin qui in carriera dalla ex numero 1 del mondo.

Eppure, dopo l’ultimo vincente contro Anastasia Pavlyuchenkova, l’abbiamo vista emozionarsi come non mai. Negli ultimi game si stava facendo sempre più sentire, sempre più emotiva ed espressiva, lei che fin lì stava comunque dominando e c’era ben poco che facesse pensare si arrivasse a un punteggio più combattuto del 6-2 6-3 conclusivo. Come anche lei ha ammesso però, malgrado non ci sia stato fin lì un pensiero al dove si trovava e cosa stava succedendo, si è fatta sentire la voglia enorme di fare qualcosa di speciale.

Osaka è un posto che fa parte della sua vita sebbene sia rimasta lì fino a quando aveva appena un paio d’anni, ma la storia della sua famiglia ha risvolti molto forti con la città di Osaka, e non tutti necessariamente positivi. È raccontato tutto molto bene in un lungo articolo del New York Times di qualche tempo fa, quando lei era ancora seguita da Sascha Bajin, ma che oggi diventa molto d’attualità.

Se c’è qualcosa che caratterizza la nazione del Sol Levante è che da sempre la popolazione è stata a grandissima maggioranza autoctona. Il concetto dello straniero è sempre stato un po’ tabù e se non si vuol usare necessariamente il termine “razzismo” c’è più una questione di cultura e abitudini. Qualcosa sta cambiando negli ultimi anni grazie alla spinta della modernizzazione, e se pensate alla nazionale di rugby che si sta giocando il mondiale (in casa) troverete tanti esempi come Naomi e Mari adesso esaltati e messi costantemente sotto l’attenzione pubblica. Fino a poco tempo fa non era così. Ancora oggi in Giappone viene usata una parola che differenzia i giapponesi “puri” da quelli nati da un incrocio tra locali e stranieri: persone come Mari e Naomi sono chiamati hāfu (ハーフ) che specialmente nel periodo post-seconda guerra mondiale è spesso stato accomunato con grandi atti di discriminazione.

In tutto questo, Tamaki Osaka (la madre) è un esempio di grande perseveranza e coraggio. Noi sappiamo che Naomi Osaka nacque a Osaka, e dove ora ha vinto, e francamente ci viene sempre un po’ da sorridere per la rara combinazione, ma quando Tamaki si spostò con la famiglia lì, ci furono momenti di grande tensione. Il padre voleva, quando la figlia cominciava a diventare adulta, che si cominciasse a parlare di un possibile miai (見合い) una tradizione locale che consiste nel far incontrare due persone libere sentimentalmente e che possano poi prendere in considerazione l’ipotesi di un matrimonio. Lei, a quel punto, vuotò il sacco raccontando che da qualche tempo stava già frequentando Leonard Maxime Francois, un uomo dalla pelle nera, originario di Haiti e residente a Long Island, stato di New York. Inaccettabile. Tamaki venne accusata di aver tradito la famiglia giapponese e di aver portato disgrazia nella sua, di aver mancato nei valori su cui essa si basa e che in quella parte del mondo sono ancora un perno importantissimo. Diseredata, costretta a vivere per quasi 10 anni senza più alcun contatto con i propri genitori, ebbe comunque la forza di continuare per la sua strada. Lei e “lo straniero” trovarono lavoro a Osaka, misero su famiglia con l’arrivo nel giro di 18 mesi prima Mari e poi Naomi. Nel 2000 il trasloco a New York, dai genitori di lui, crescendo le figlie in un appartamento che traboccava di forti sfumature dell’identità giapponese, haitiana e newyorchese. Per questo Naomi ha sempre detto di essere molto felice di poter giocare per il Giappone ma che al tempo stesso dentro di lei si sentisse fortunata ad aver assorbito fin da piccolissima tre mondi così distanti tra loro.

Tamaki parlava alle figlie in giapponese. I nonni haitiani non conoscevano alcuna parola di inglese ma si facevano voler bene e adoravano le loro nipotine, riempiendo casa con i profumi delle spezie haitiane e dei loro piatti più tradizionali. E alla fine, malgrado come Tamaki si sia sentita ripudiata dal proprio paese natale, lei e Leonard hanno voluto che le figlie prendessero il suo cognome e non quello del padre, Francois, in omaggio alla terra dove sono nate. La madre ha fatto di tutto perché il Giappone non fosse visto come un luogo nemico per le figlie, pensando anche a quella famiglia che l’aveva cacciata e aveva sollevato un muro verso di lei che durava da circa 15 anni. È stata lei a imporre che le sue figlie incontrassero i nonni materni.

Difficile pensare come si fosse immaginata l’evento. Al di là della grande diffidenza iniziale, furono abbastanza interessati a capire come la figlia e il marito le stessero crescendo e si sollevò un sentimento di negatività quando seppero che Mari e Naomi avevano cominciato a giocare a tennis per provare a diventare delle professioniste e renderlo un vero lavoro. Anche questo, nell’immaginario collettivo di alcune nazioni asiatiche, è qualcosa che non può togliere tempo ed energie a quelli che sono punti importanti come lo studio e l’educazione. Una situazione che può essere riproposta con altri esempi tra cui la vicenda di Kristie Ahn, tennista statunitense nata da genitori coreani, che nelle ultime settimane ha rotto il muro della top-100 e la sua storia è diventata di uso comune. Lei, che per 10 anni ha navigato nelle posizioni periferiche del tennis, nell’ultimo periodo aveva fatto un patto con il padre il quale non ha mai veramente accettato che lei diventasse una tennista professionista rinunciando a opportunità di lavoro. Per tre anni lui l’avrebbe economicamente aiutata, poi se lei non avesse avuto l’opportunità di vivere in maniera indipendente avrebbe lasciato lo sport. Ancora oggi, con lei che adesso si trova dentro le prime 90 del mondo, lui sembra pentirsi di questo sviluppo ormai inatteso (Ahn vinse una wild-card per il tabellone principale dello US Open nel 2008, è tornata a giocare in un main draw 3 settimane fa).

Per quanto negli Stati Uniti Mari e Naomi stavano cominciando a mettersi in mostra nei campi da tennis, nessuno sembrava realmente interessato a spendere qualcosa per loro. Per questo i genitori, malgrado tutto, decisero verso i loro 13 anni che dovevano giocare sotto la bandiera giapponese. Così è iniziata tutta un’altra storia con connotati che escono dal semplice gioco. Oltretutto adesso quella scelta sta avendo forti ripercussioni nella vita di Naomi: da quando ha cominciato a vincere, si sono fiondati su di lei i maggiori sponsor giapponesi, i CEO più importanti e sono fioccati contratti di altissimo valore per quella che è una delle migliori atlete del Sol Levante. A Indian Wells 2018 fu netta la differenza tra i primi giorni del torneo, quando c’erano solo un paio di reporter nipponici, e il giorno della finale in cui la tribuna stampa era piena e in conferenza, oltre a loro, si presentarono anche signori ben distinti con giacche eleganti e targhette attaccate al taschino. Naomi, in tutto ciò, è consapevole di avere una fortuna non da poco: tutte queste etnie in una persona sola possono creare un mix di enorme valore sociale. Chiedete per informazioni al popolo haitiano che l’ha accolta come una regina nella scorsa off season e le ha mostrato tutti i lati di un paese sommerso dalla povertà, ma che aveva tanta gioia di far sentire a casa una ragazza che eppure non aveva mai messo piede sulla loro isola. Osaka parlò tanto di quel momento nelle prime interviste del 2019, raccontando di come spesso il suo cuore avesse dei sobbalzi nel vedere lo stato in cui versava il paese.

In Giappone, invece, c’è voluto del tempo ma Osaka è riuscita a cambiare la percezione di molti. Nel 2014, quando a 16 anni batté Samantha Stosur nel torneo di Stanford, poco dopo ricevette un messaggio addirittura dal nonno in Giappone che la avvisava di come quel risultato era finito su tutti i più importanti media sportivi del paese. Lentamente, il suo sogno di diventare una tennista era passato a essere qualcosa di positivo, di accettato, anche da quel ramo della sua famiglia che era sempre stato più rigido e severo. E da lì, ancor prima che Osaka diventasse una tennista di successo, da parte sua ci fu soprattutto supporto. Cambiare l’opinione pubblica generale non è facile: quando vinse a Indian Wells c’erano opinionisti che sostanzialmente mettevano in dubbio la sua origine giapponese, tanto che il nonno stesso si sentì in dovere di farsi sentire ai giornalisti di Nemuro, una cittadina nella penisola di Hokkaidō, per raccontare la sua storia. Quando andò a Tokyo, dopo la vittoria allo US Open, tra le domande dei 400 giornalisti accreditati ci fu qualcuno che provò a metterla “spalle al muro” chiedendo se si sentisse veramente di appartenere al popolo giapponese. Alla fine, questa settimana trionfale a Osaka è stata la combinazione più bella che le potesse capitare. Lei che vince dove tutto cominciò e con il papà Leonard, “lo straniero”, seduto in panchina come suo coach, lui che volle costringerla ad appena 3 anni a spendere giornate intere a colpire una pallina gialla malgrado a lei non piacesse particolarmente, convinta solo dell’idea che voleva battere sua sorella, la stessa che continuava a darle 6-0 per tantissimo tempo. Una hāfu trionfante in un evento che in più di 40 anni di storia aveva visto imporsi (in singolare) come unica giapponese la leggendaria Kimiko Date, nel 1995. Una hāfu che ha preso il pubblico come già avvenuto negli anni passati (mai una volta in cui Naomi non sia stata ben trattata dal pubblico locale), che deve averle scaldato il cuore con il lungo applauso non solo odierno ma anche a inizio settimana, quando la speaker per prima cosa le ha detto: “Benvenuta a Osaka, Osaka-san”.

Per tante cose, questo successo può valere per lei quanto quelli precedenti. Non è uno Slam, non è al livello di Indian Wells, ma vincere a Osaka non può non avere un posto speciale nel suo cuore e, come spesso è capitato nella sua storia, non parliamo mai unicamente di “bianco” e “nero”, ma abbiamo a che fare con tante sfumature che compongono un mosaico di enormi risvolti. Ha trascinato dalla sua parte l’opinione di ormai una buona maggioranza del paese senza aver realmente portato la questione all’attenzione generale, e tutto questo clamore che cresce di anno in anno fa pensare a cosa potrà essere quando nel prossimo agosto lei sarà di ritorno a Tokyo per le Olimpiadi. A oggi, non sarebbe nemmeno follia pensarla porta-bandiera del paese, anche se sono talmente tanti gli atleti nipponici di alto livello attesi e talmente tante le circostanze da affrontare che è ancora molto presto (oltre al fatto che noi, come appassionati di tennis, saremmo vagamente di parte).

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