Djokovic, New York e quei fischi ingrati

Il ritiro del serbo a Flushing Meadows ha scatenato l'ingiusta reazione del pubblico dell'Arthur Ashe: una grave mancanza di rispetto verso un campione

Guardiamoci in faccia: se su un 2-1 e break subito del terzo set sotto due set a zero si ritirasse Federer tutti i tifosi andrebbero persino negli spogliatoi con le bende e le pozioni druidiche per tentare di convincerlo a tornare in campo (vabbeh, poi si risolve tutto con un “Roger non si ritira mai…” e via). Se lo facesse Nadal molti si metterebbero a piangere (magari solo in Australia no, va…).

Se lo fa Nole, apriti cielo.

Sono circa le 5 e mezzo del mattino di lunedì 2 settembre da noi, quando Djokovic affossa una seconda di servizio in rete e alza bandiera bianca sull’Arthur Ashe contro Wawrinka nel suo ottavo di finale. Ci si aspetterebbe silenzio, sgomento, delusione o che il pubblico tributasse un caloroso incitamento a quello che non è un qualificato qualsiasi, bensì il numero uno del ranking da più di un anno (e di varie altre stagioni). Invece il serbo viene affogato di fischi.

Intendiamoci, che Djokovic da queste parti non sia proprio Sinatra lo si sa. Basta ricordare le due semifinali vinte (con tanto di match point annullati) contro Roger nel 2010 e 2011 e i plateali gesti di provocazione di Nole dopo il dritto in risposta vincente che salvò il primo punto match nel 2011. Oppure torniamo alle finali perse contro Nadal o quella contro Wawrinka, dove i tifosi non scandivano proprio “Ajde Nole” in tribuna… O ancora la finale sempre con Federer nel 2015, che pareva Inter-Juve a San Siro (e provate a indovinare chi fosse la Juve…).

Eppure sentire venir giù lo stadio dai fischi e dagli ululati contro il più forte tennista attuale fa male. Soprattutto se questi non ha fatto niente per meritarseli, tentando anzi di dare a quel pubblico che lo sommerge di scherno qualcosa al di là evidentemente delle proprie possibilità e che forse, a posteriori, non si sarebbe meritato neppure in quella minima parte.

Non si può neanche dire che non ci fosse sentore della possibilità che Djokovic si ritirasse, dato che da due partite non si faceva che parlare di quella spalla dolorante. Di conseguenza l’atteggiamento del pubblico newyorkese di fronte alla resa serba assume il significato ancora più deprimente non solo dell’antipatia nuda e cruda, ma anche dell’inciviltà e della mancanza di rispetto per qualcuno che, può piacere o no, ha regalato enormi emozioni in quello stadio e che viene ritenuto senza pericolo di smentita uno dei migliori di sempre.

Si potrebbe stare a discutere in eterno di come il pubblico americano sia differente rispetto a tutti gli altri nel mondo, di come le partite si seguano con sottofondi di esclamazioni, sospiri, esultanze a scena aperta e di quanto gli spettatori siano anche loro frutto di un business che sa perfettamente come si conquistano le folle e di come dare in pasto un prodotto vincente. Quel pubblico sarà certamente il più caldo (cosa che viene abbondantemente “permessa”, del resto) del circuito ma, nella storica ingenuità paesanotta di un popolo che prima del ‘500 manco aveva un piede in America, è anche un pubblico che segue nel bene e soprattutto nel male sempre la prima impressione.

Il pubblico di New York berrà Coca-Cola (o Pepsi che sia), mangerà pure hot dog e seguirà il ritmo delle canzoni a tutto volume negli intervalli, ma non lo compri. Questa forse è l’unica cosa che Djokovic ancora, dopo tanti anni, non ha capito. Puoi “gettare il cuore” ai sirs e alle ladies di Wimbledon e ti applaudiranno, per poi però correre a baciare i piedi di “God-save-the-King Roger”, ma almeno il tuo applauso te lo prendi. Gli americani invece non li freghi… E te la fanno anche pagare cara, quando possono, nella maniera più ignorante e incivile possibile.

Ovvero fischiandoti nel momento più duro della stagione, quando non hai nessuna colpa e facendotelo passare come un “Karma is a bitch” sibilato all’orecchio. Ma di quanto successo quel lunedì, il buon Nole, di colpe ne ha pari a zero. In quella notte siamo tornati ai fischi del 2008, con Roddick che per poco non gli metteva le mani addosso e gli dava dell’ostentatore di infortuni fasulli. Quella notte ci siamo resi conto che per il pubblico da allora non è cambiato niente. O se è cambiato, lo è in peggio.

Il rispetto dovrebbe andare al di là del tifo, soprattutto quello becero e sfegatato, specialmente per un campione del calibro di Nole. Non ci è dato ancora di sapere quanto grave sia l’infortunio occorsogli alla spalla e nessuno ha stilato un cifrario circa il quando un giocatore sia in diritto di ritirarsi da un match. Innumerevoli sono state le occasioni in cui anche grandi campioni si sono tirati indietro solo per evitare l’onta di una disfatta. Beninteso, non siamo qui a fare di Djokovic un eroe, ma francamente quella di New York era ben lungi dall’essere una situazione simile.

Avrebbe potuto anche evitare di presentarsi, ma da numero uno del mondo ci ha provato e alla fine non ce l’ha fatta più. Senza contare che Nole non ha più 20 anni e che magari alla sua età preservarsi da conseguenze peggiori per la sua carriera non è proprio una cattiva idea. E specie in un’era tennistica come nessun’altra, dove le nuove generazioni in confronto alle vecchie paiono nidiate di bocciati di scuole guida con la “P” scritta bella grande sulla schiena, i fan dovrebbero coccolarsi bene i loro campioni, pensando con attenzione a ciò che ci attende quando appenderanno la racchetta al chiodo.

Invece in quella tarda mattina di settembre quei fan hanno risposto nel modo peggiore di fronte a chi ancora, dopo tante vittorie, sta lì a sbattersi ogni giorno anche per loro. Lasciando nell’aria solo un gran senso di ingratitudine.

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