Un weekend di Fed Cup impossibile da dimenticare. E l’Italia, ora, deve ripartire da zero

Gioie e dolori mischiati assieme per tantissime sfide dell'ultimo weekend di Fed Cup, il più bello da diverso tempo a questa parte tra semifinali e spareggi al cardiopalma per ore e ore.

Sono passati due giorni da quello che è stato uno dei weekend più belli, intensi, equilibrati degli ultimi anni di Fed Cup e le scorie di partite durissime si fanno sentire ancora oggi.

Noi italiani siamo tra quelli che dobbiamo leccarci le ferite, vittime di una retrocessione nel Group 1 (la “Serie C”, per usare un termine calcistico) annunciata già dal 2017, anno in cui ci salvammo contro Taipei in una sfida che è finita nel momento in cui le asiatiche hanno annunciato che avrebbero chiesto il cambio di sede, evitandoci una lunghissima e scomoda trasferta sul veloce nel bel mezzo della stagione su terra.

Noi, retrocessi dopo 22 anni di cui una buona metà spesi a elogiare i grandi traguardi delle nostre ragazze d’oro sia a livello di team che di singoli, siamo stati capaci di mandare in fumo il momento più glorioso del nostro sport, culminato con la finale dello US Open 2015 tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci. Da lì l’impero ha cominciato a sbriciolarsi, perdendo pezzi e proponendo giocatrici che fanno parte di una generazione non sembra così brillante. E non è neppure giusto fare il paragone, visto che Francesca Schiavone, Flavia Pennetta, Sara Errani e Roberta Vinci hanno tutte raggiunto finali Slam in singolare e doppio, la top-10 in singolare e doppio.

In tre anni, in quello che dal 2016 a oggi è stato il nostro Tardo Romano Impero, Tathiana Garbin nei panni di Romolo Augustolo ha ereditato una nazionale destinata a sperare di mantenere il World Group 2. Quello era l’obiettivo massimo, visto il continuo svolgersi degli eventi tra le bizze di Camila Giorgi (che nel frattempo con Istanbul è arrivata a 8 forfait in stagione su 13 eventi), i problemi di Sara Errani e un ricambio, appunto, non ancora pronto. Garbin, anzi, ha ben poche colpe in tutto ciò. Ma, come Romolo Augustolo, è stata la persona a capo di una nazionale (lì di un impero) che è arrivata alla sua fine. Possiamo puntare il dito contro chiunque, o possiamo anzitutto accettare la realtà dei fatti: negli ultimi anni dire che la Fed Cup, o il semplice ritorno nel World Group 1, fosse un obiettivo alla nostra portata è stato pura fantascienza.

Arriveremo, nel 2020, a giocare a febbraio in una settimana sola in un raggruppamento di 15 squadre suddivise in 4 gironi. La vincente di ogni girone giocherà uno spareggio per accedere, poi, all’eventuale playoff di Aprile. È una giungla con nazionali che possono anche essere più forti di noi (Olanda, Ucraina, Polonia, Serbia, Croazia) e probabilmente essere teste di serie potrebbe non darci un grande vantaggio.

Chiuso il nostro capitolo, tutto il resto del fine settimana ha vissuto di emozioni forti. Le semifinali sono state qualcosa di incredibile: 7 ore e 54 minuti complessivi in Francia, a Rouen, teatro infuocato di una sfida che ha lasciato senza forze chiunque; “soltanto” cinque ore e mezza a Brisbane dove i primi singolari della domenica sono stati molto rapidi ma per il resto (compreso un doppio decisivo di qualità assoluta) estremamente tirato.

A Rouen, per due giorni, si è respirata aria di festa, merito anche dell’enorme presenza di rumeni in giro per le strade della città e sugli spalti a cantare come dei matti per tutto il tempo, rincorrendo un sogno che per loro, per tutto il paese, avrebbe voluto dire staccare il biglietto per l’Australia e andare a giocarsi la prima finale tra Coppa Davis e Fed Cup dal 1972. Simona Halep ha investito tantissimo in questo obiettivo, tanto da definirlo dopo il sacco di Ostrava come il più importante della sua stagione. Certo, nella sua testa l’idea di vincere uno Slam o di tornare numero 1 c’è, ma dopo aver vissuto in campo e osservato dalla panchina Irina Camelia Begu e Monica Niculescu completare una delle imprese tennistiche più importanti del proprio paese voleva a tutti i costi guidare la nazionale fino in fondo. Lo desiderava a tal punto da sacrificarsi e scendere in campo nel doppio decisivo malgrado una caduta alla fine del primo set del proprio singolare contro Caroline Garcia durato circa tre ore, che le aveva procurato dolore nella zona dell’anca e l’aveva fatta dire “spero di non dover più scendere in campo, qui”. Doveva farlo, perché Begu si è girata malamente la caviglia in uno degli ultimi punti del suo match di singolare, e così si è creato un doppio dove lei ha guidato la squadra in maniera a tratti commovente, con una Niculescu non al livello della giocatrice leader vista in Repubblica Ceca, contro un duo come Kristina Mladenovic e Caroline Garcia.

La coppia francese, riunitasi dopo due anni di grandi problemi e attriti, è ben lontana dall’essere al livello di rapporto che c’era prima. Sono assieme, parte dello stesso team, ma Garcia per prima sa che più del rispetto ora non potrà mai esserci. Parte del team, parte della nave, con una semicitazione del motto dei membri dell’equipaggio di Davy Jones nel film Pirati dei Caraibi. Inutile pensare sempre che l’amicizia debba essere un fattore fondamentale, ma questo non vuol dire che per qualche ora non si possa provare a ragionare allo stesso modo per il bene della squadra. E gli attriti si vedevano ancora, nel primo set, con le due che a stento si parlavano. Solo dall’inizio della seconda frazione hanno cercato di venirsi incontro, collaborando e cominciando la risalita. Elogi, enormi, da parte delle stesse transalpine verso il tifo dei rumeni. Garcia ha spesso chiamato il sostegno dei propri tifosi, aggiungendo che non le era mai capitato di giocare in casa e di non sentire altro che il tifo avversario, alzare la testa e vedersi davanti un muro fatto di maglie gialle.

I giornalisti rumeni a Stoccarda, arrivati direttamente dalla Francia, non hanno usato mezzi termini: “È stata la delusione più grande che abbiamo mai provato su un campo da tennis”. È vero che probabilmente la volta di Halep contro Alona Ostapenko, a Parigi, è stata forse superiore, ma erano vicinissimi al traguardo pur con una squadra che non era a posto per vari motivi. “Molti ci davano come favoriti, ma sapevamo che in caso di 2-2 non ce l’avremmo fatta. Mladenovic e Garcia possono non avere buoni rapporti, ma se entrano nella partita sono più forti delle nostre”. Esattamente quello che è successo, eppure Halep ha tenuto in piedi la speranza di un miracolo svanito solo col break sul 4-4 al terzo set.

A Brisbane lo scenario era molto simile. La Bielorussia veniva data coi favori del pronostico perché aveva un team di singolariste che poteva far leva sulla seconda singolarista avversaria, più debole, ma rimaneva l’ostacolo Ashleigh Barty. E al momento Barty è veramente in forma, con due marce in più di tutte le altre. Doveva vincere 2 punti, e così è stato. E al doppio, con lei in campo, le padrone di casa hanno portato a casa una vittoria storica, arrivando in finale dopo 26 anni.

26 come gli anni trascorsi dall’ultima volta in cui la Gran Bretagna è stata nel World Group. Una vita fa, e per arrivarci hanno dovuto spendersi per quattro singolari duranti complessivamente sulle 9 ore per battere la resistenza di un Kazakistan sospinto, qui, da Yulia Putintseva e da una banda di musicisti portati da casa con tanto di tamburi, trombe e tanto gas. “Come pensi che possa star bene?” così Laura Robson, nelle vesti di telecronista per la BBC, alla domanda del collega (per quella circostanza) David Law sul 6-6 nel tie-break del terzo set tra Katie Boulter e la stessa Putintseva, con la britannica impegnata in una battaglia tremenda e con 3 match point mancati. Perderà 8-6, con Putintseva che si farà notare per una delle esultanze più “sobrie” nella storia di questo sport

La domenica, se possibile, il livello è stato pari se non maggiore al giorno precedente. Di nuovo Putintseva, stavolta ad assistere alla rimonta di Johanna Konta dall’1-4 e servizio sotto al terzo, col capitano delle kazake che ha marcato il grandissimo punto dalla britannica sul 30-30, con un dritto da 3 metri fuori dal campo finito sulla linea laterale, come vero turning point di tutta la settimana: “Fino a lì sembrava persa e confusa, da lì in avanti è stata infallibile e ingiocabile”.

E ancora, dal Texas che per la prima volta ospitava un tie di Fed Cup dove gli Stati Uniti, tra l’altro, si sono imposti sulla Svizzera alla Repubblica Ceca dove la sfida era segnata a favore delle padrone di casa contro il Canada che non aveva top-200, ma si è rivelata l’occasione giusta per convocare e dedicare la passerella d’addio a Lucie Safarova, che ha salutato il pubblico ceco vincendo il doppio del 4-0 finale e poi andando in mezzo al campo per ricevere il caloroso applauso di Prostejov mentre, emozionata, cercava di parlare. Ha lasciato anche Dominika Cibulkova, che a un mese dai suoi 30 anni ha giocato e vinto le ultime due sfide con la maglia della Slovacchia in una sfida, anche qui, da grande favorita contro il Brasile ma diventa rilevante per l’addio di una delle più grandi tenniste della giovane storia slovacca.

Infine, il grande rimpianto delle belghe, anche loro impegnate a lungo e con tutte le loro armi contro la favorita Spagna e che stavano riuscendo a ribaltare tutto causa le brutte condizioni di Garbine Muguruza, sconfitta in entrambi i singolari, ma hanno trovato il muro creato da Carla Suarez Navarro che ha tenuto a galla la nazionale di Anabel Medina Garrigues e l’ha portata al successo in doppio.

Pochi weekend hanno avuto così tanto da regalare, e ancora oggi lasciano scorie. Peccato, in ottica azzurra, non poter più divertirci così. Se non cambierà nulla, se non ci saranno miracoli, toccherà attendere almeno il 2021 per essere tra le migliori 16 del mondo. Il problema è che questa nazionale ha bisogno di ricostruirsi da zero e non è affatto facile in questa situazione.

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