“Sarei disposto ad avere 37,5 di febbre tutta la vita in cambio della seconda palla di McEnroe” diceva Beppe Viola.
E qualcosa vorrà dire se anche sul campo 2 c’è il pienone come sullo Chatrier dove Caroline Garcia si gioca l’accesso alla semifinale. Poi guardi il programma e capisci tutto.
Insomma, senza offesa per la polverosa grandeur francese, vecchia come l’immagine del torneo, meglio veder giocare le braccia sinistre di Dio, McEnroe e Ivanisevic, piuttosto che un qualunque incontro di questo Rolando Noioso, piatto e senza un’unghia della fantasia o i colpi di scena del capolavoro di Ariosto. Ben venga quindi il paradosso di cercare il vero tennis nel passato, stipandosi sui gradoni di un campo secondario per sentire ancora la pallina cantare. Perché sia chiaro, citati per onor di firma gli irriconoscibili comprimari Cedric Pioline e Sergi Bruguera, è ancora impossibile resistere alla malìa di quegli altri due. L’americano ha i capelli bianchi, il croato solo brizzolati ma basta un tocco delicato a rete o una prima palla di servizio per tornare indietro negli anni e rivederli selvaggi e urlanti sull’erba di Wimbledon. Ha ragione Martina, non basta colpire una palla per costruirsi il proprio angolo di storia se si vive in una torre d’avorio.
Andate a rileggere l’intervento di Supermac sul caso Court…
C’era chi faticava a trovare spunti già a Roma, dove in assenza di incontri che valesse la pena raccontare ci aveva pensato l’Angelo vendicatore a smuovere le acque con quella sublime uscita su Federer, e quantomeno la vittoria di Zverev aveva dato fiato alle trombe del nuovo che avanza.
Del quale nuovo solo un paio di settimane dopo non c’è più traccia eccettuato il più pronto di tutti, quel Dominic Thiem che, occhio per occhio e dente per dente, ha dominato in lungo e in largo un Djokovic ormai incapace di tenere dentro tre palline di fila. Dove sono i giovani di cui tanto si favella?
Che poi giovani lo sono certo da un punto di vista anagrafico ma come tennisti forse non più.
Prendendo come limite proprio i 23 anni di Dominic Thiem e consultando l’almanacco senza considerare Rafa e Roger per pudore, si apprende che a quell’età Borg aveva già vinto 6 Slam, Sampras 5, McEnroe, Wilander e Becker 4.
Fenomeni dite? Certo che sì, ma noi cosa andiamo cercando se non lo stupore di uno svedese diciottenne che vince il Roland Garros esattamente come Bjorn o un piedone tedesco che trionfa tuffandosi sul Centre Court quando la maggiore età la deve ancora compiere?
Ormai a quel brivido ci abbiamo rinunciato. È negli Slam che si parrà la loro nobilitade, ma se a Melbourne è finita come sappiamo, in questo Roland Garros i pretendenti giunti al secondo turno sono stati, in ordine d’età, Coric, Chung, Khachanov, Edmund, Kyrgios e Thiem. Solo quest’ultimo è sopravvissuto fino alle semifinali. Di cosa stiamo parlando?
Non è la prima volta che il gran circo del tennis vive un momento di stanca, è già successo in altri tempi fin da quando si ritirarono i fratelli Renshaw nel 1890. Ma il problema forse non è solo questo. C’è un aspetto sfuggente ma che appare chiaro a chiunque abbia compiuto gli anta o possieda, bontà sua, una solida base storica sul gioco. In ogni epoca il nuovo per emergere si è dovuto misurare col vecchio campione e per batterlo ha dovuto trovare un modo, una via.
I miti del tennis nascono così. Lacoste e Cochet vennero a capo di Tilden con la regolarità sovrumana del primo e l’anticipo estremo nei colpi del secondo. Laver passato professionista perse sempre contro Rosewall prima di scoprire come disinnescare quel computer dal rovescio fatato. John McEnroe e prima di lui Panatta scoprirono che attaccando a tutto spiano la montagna Borg si poteva scalare.
Ma era tutta gente che su un campo da tennis e con un pezzo di legno con le corde in mano sapeva fare di tutto. O meglio, che era disposta a imparare e cambiare per impossessarsi del regno.
Guardatevi la finale degli US Open 1988 e il modo col quale Mats Wilander giocò quell’incontro per venire a capo della maggior potenza di un Lendl ai suoi vertici.
Oggi nel mondo social dell’eterno presente non è più necessario battere il numero uno. Spesso è sufficiente un bel faccino (Zverev), la fidanzata giusta e qualche hot shot qua e là (Dimitrov) o essere la bandiera di un paese intero (Nishikori o Chung) per diventare una star del web, appagare il proprio ego e gonfiare il portafoglio. E con la pancia piena già a vent’anni chi me lo fa fare di provare a scalare l’Everest al freddo col rischio di prendermi una congestione o finire in un crepaccio?
Per uscir di metafora e tornare allo Slam parigino, spiegatemi ad esempio quali speranze poteva mai nutrire Karen Khachanov l’altro giorno, escludendo la sincope, di battere Andy Murray con la solita minestra del servizio bomba e il drittone che ha bisogno di un’era geologica per preparare.
È bastato azzardare timidamente che sia lui l’erede di Safin (bella roba) e il casting per le Karenettes è iniziato. Sembra che dopo i vent’anni per costoro non valga la pena imparare – sul gioco, beninteso – nulla di nuovo. Chissenefrega se quando conta prendono ramazzate da uno che ha nel migliore dei casi dieci anni più di loro e la maglia della salute sotto la polo.
“Se tiro forte sono forte”, questo sembra essere il solo mantra delle nuove generazioni.
Si accontenteranno di salire al trono per consunzione del sovrano.
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