Nella foresta di giocatori nel primo turno di Wimbledon 1999 quel’imberbe svizzerotto non ancora diciottenne era già abbastanza considerato da meritarsi una wild card e pur perdendo seppe lasciar traccia di sé. Era al suo secondo anno da professionista, chiuso poi al 64° posto, e noi italiani già lo conoscevamo. Chiedete a Davide Sanguinetti, sconfitto in Davis con tanto di racchetta scagliata a terra. Certamente oggi avrà capito i motivi della sconfitta e sarà più sereno. Andava meglio nei tornei World Tour che nei Challenger, perché sapeva che il suo palcoscenico era quello. Ma non era ancora il padrone dell’erba, prova ne sia che quell’anno al Queen’s era stato brutalizzato 6-3 6-0 dall’onesto Byron Black al primo turno.
Quando i Doherty Gates si aprono per lui il 22 giugno Federer Roger da Basilea è il numero 103 del mondo. Affronta il ventiquattrenne nato cecoslovacco Jiri Novak, solido erede di una grande scuola tennistica che saprà arrivare fra i primi cinque a fine 2002.
Il tennis è sport che necessita di maturità non solo fisica ma anche mentale e sei anni di differenza possono risultare decisivi. Succederà così infatti ma l’incontro è bello e combattuto. Forse Novak credeva di aver vita facile dopo essersi messo in tasca il primo set ma deve aver cambiato idea in fretta. Federer si scioglie e per un’ora abbondante squarcia il velo su quel che sarà. Il suo avversario non è il solo ad essere allibito mentre il secondo e il terzo parziale volano via fra tocchi e fucilate. È qui che il tennista ceco mostra le sua qualità, resiste in attesa del suo momento perché sa che può arrivare. Novak riesce a vincere il quarto e questo fatto è la chiave decisiva del match perché nel decider il giovane Roger sente la pressione e cede di misura.
Ma non manca poi molto, 1475 giorni dopo quello sbarbatello alzerà la coppa.
La prima di sette.
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