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24 Feb 2016 05:53 - ATP
Gianluca Rinaldi, mental coach: «La paura di vincere è il più grande problema che un tennista può avere»
di Redazione
TENNIS – Di Adamo Recchia
Gianluca Rinaldi, di Roma, è un personaggio per alcuni forse “secondario”, nel contesto del tennis, ma ricopre un ruolo piuttosto importante in quanto la sua professione è quella del mental coach.
Interessante quello che ci racconta di come questa nuova figura intervenga nella gestione di situazioni che si verificano nel corso di un match, di come interviene nel gestire situazioni causate (addirittura) da agenti atmosferici come il vento in modo tale che, quando accadono nel corso del match, il giocatore sappia come affrontarle. Nondimeno, come aiuta i tennisti a gestire la famosa “ paura di vincere” e gli errori nel corso del match.
Qual è stato il primo contatto che hai avuto col nostro sport?
«Dopo una prima esperienza nel campo calcistico, ho avuto modo di parlare della mia attività con il Maestro di tennis Dario Ciuciulla. Il nostro confronto costruttivo sulla tematica “Area Mentale” per i tennisti, ci ha dato l’input di creare un progetto che oltre allo sviluppo delle competenze di tecnica, tattica e atletica, rinforzasse anche l’allenamento mentale ai nostri giovani giocatori. Un approccio che necessariamente prevede non solo il consenso dei genitori ma anche il loro coinvolgimento».
Sappiamo che svolgi l’attività di mental coach nel nostro sport, come è nata questa tua attività?
«Il tennis insieme al golf è lo sport che più necessita di una preparazione mentale. E’ ricco di variabili non sempre gestibili, elementi di disturbo che inducono il giocatore a smarrire la concentrazione. Ha uno sforzo fisico e ritmo notevole e nel tempo. Situazioni che vanno gestite in tutte le aree della prestazione: tattica, tecnica, atletica e mentale. E’ un’esperienza incredibile. Vedo tennisti, in due ore di partita, vivere emozioni contrapposte, passare da uno stato di sicurezza ad uno stato di incertezza è qui che il mental coach trasmette gli strumenti per tentare di trovare la soluzione».
Se un giocatore sente la normale tensione pre-match che consigli ti senti di dare per gestire al meglio la situazione?
«In allenamento tentiamo di “simulare” ciò che può avvenire in partita. Il giocatore si deve sentire preparato, sicuro. Si deve attivare. Pertanto si svolge un attività di “rinforzo” di quanto provato. Mi ricordo ad un torneo, il giorno prima ci stavamo allenando con un forte handicap: il vento. Abbiamo lavorato sui cambi campo per dare consapevolezza al giocatore dei vari effetti della direzione del vento e dopo che li aveva provati doveva immediatamente descriverli. A quel punto era lui stesso che andava alla ricerca della soluzione. In partita il giorno seguente c’era lo stesso vento, il giocatore non aveva alibi, non portava problemi ma aveva la soluzione perché provata in allenamento. Il giocatore era istruito su cosa fare. Il giorno prima della partita, faccio fare esercizi di PNL (Programmazione Neuro-Linguistica), di visualizzazione, usare i sensi per attivarsi. Esaltare quanto di buono fatto in allenamento per incrementare l’etero/auto-stima e la consapevolezza dei propri mezzi ed è importante farlo nel momento dell’allenamento (intesa come sessione addestrativa), durante la partita potrebbe essere pretestuosa. Massima attenzione anche nei gesti più banali come la preparazione della borsa e dell’attrezzatura, la bottiglia dell’acqua e/o di eventuali integratori».
Si sente spesso parlare della “paura di vincere”, come è possibile combattere questo timore?
«La paura di vincere è il più grande problema che un tennista può avere. Per gestirla è necessario capire le sue radici nell’individuo. Certo il termine “paura” fa spavento ma cerchiamo di ridimensionare il termine di questo comportamento quando si manifesta un emozione di questo tipo. La paura è un meccanismo di difesa. Ci consente di non ripetere lo stesso errore per colpa di quella sensazione di “paura”. Ed in questo già vedo un’opportunità: la paura mi aiuterà a non ripetere uno stesso errore. Ma la paura di vincere, che declassificherei in timore di vincere potrebbe avere origini sul proprio vissuto o su come siamo. Se un giocatore timido dovesse vincere un torneo, il giorno stesso e il giorno seguente sarebbe al centro dell’attenzione del circolo e questa sua paura scatena altre fobie di natura caratteriale. La soluzione che il mental coach dovrebbe trovare e quella di rendere quella vittoria come un allenamento: riflettori spenti su di lui, oppure appellarsi alla compensazione della sua timidezza. Quando gestiamo persone dobbiamo partire dall’analisi della personalità. Questo non vuol dire conoscere i problemi esistenziali della persona. Al mental coach non interessa. La paura comunque si può contrastare con esercizi di allungamento muscolare dedicati e soprattutto con la respirazione. Oppure, porre l’attenzione su altro, cambiando il focus. La scelta della strategia deve essere fatta in partita anche perché fondamentale diventa lo studio dell’avversario. La paura si comincia a gestire nella fase di riscaldamento: l’atleta deve sudare, deve sentire caldo. Si deve attivare anche termicamente. Quando abbiamo paura, abbiamo la sensazione di freddo».
Quando, durante un incontro, si comincia a sbagliare con maggiore frequenza come consigli di gestire il fenomeno?
«La gestione dell’errore è la prima competenza che sviluppo nei giocatori. Si usa l’auto-educazione, l’auto-consapevolezza. In campo non deve mancare mai una lavagna dove il giocatore deve scrivere la soluzione all’errore. L’errore deve essere riconosciuto: prima l’analisi del compagno di squadra (e non il giudizio) e poi su stessi. E’ sempre più facile parlare degli altri che di se stessi.
Io, non gioco a tennis, molto spesso mi faccio spiegare come si eseguono alcuni colpi o movimenti e il maestro ascolta. Non solo, ma avere la competenza di saper riconoscere l’ errore non solo aiuta noi stessi a non commetterlo, ma ci abitua a leggere gli errori dell’avversario ed in quell’errore che dobbiamo colpire. In sintesi: strategia».
Sappiamo che per ora segui atleti juniores, spiegaci la differenza con atleti “senior”.
«Uno dei compiti del mental coach è motivare le persone. Cerchiamo però di capire anche cosa potrebbe de-motivare l’atleta; la differenza tra juniores e senior è nel come motivare. Tennisti particolarmente giovani, hanno bisogno di motivazione alla partecipazione. Vuol dire che un ragazzo ha scelto, deciso questo sport e si è attivato per farlo. In questo risiede il senso di affiliazione (opportunità di stabilire nuove relazioni sociali), l’eccellenza (l’ acquisizioni di abilità sportive riconosciute anche da altri), il successo. Pertanto il mental coach deve lavorare su leve motivazionali diverse da un adulto che invece sono basate più sulla competizione e meno sul divertimento. Quando si allenano i giovani, bisogna considerare ciò che potenzialmente può demotivarli. Ciò che li può indurre all’abbandono della disciplina sportiva. Spesso e soprattutto nel tennis, i ragazzi praticano questa disciplina perché il genitore la pratica. In questi casi ci sarà molto da lavorare. Ciò che motiva un adulto di 40 anni non è lo stesso per un giovane di 14-16 anni. L’altra differenza è nel linguaggio e le tecniche di comunicazione. I ragazzi soprattutto durante ad un intensa attività fisica, particolarmente stressante (intendo l’opportunità di svolgere una pratica eccitante) riconoscono la comunicazione verbale per il 20%, il restante 80 è composto dal linguaggio verbale e dal tono della comunicazione. Il mental coach non solo deve stare attento a ciò che dice ad un atleta, in considerazione della sua età e della sua personalità, ma soprattutto come lo dice e regolare il numero di indicazioni. Il cervello di un adulto può sostenere da 7 a 9 indicazioni per volta (buffering mentale). Tutto ciò c
he va oltre questo numero non viene memorizzato dall’ atleta. Quindi, poche indicazioni, chiare, che siano soluzioni e no problemi e dette in tono calmo, non dobbiamo trasmettere ansia. Se è vero che conosciamo i nostri ragazzi è anche vero che i nostri ragazzi conoscono i maestri e i coach».
Per ora la figura del mental coach nel tennis è ancora poco diffusa, che ragioni pensi abbia questo fenomeno?
«Le considerazioni comuni sulla figura professionale del mental coach viaggiano agli antipodi: tennisti che riconducono l’attività del mental coach come uno psicologo e gli senti dire “mica sono matto che ho bisogno dello strizzacervelli!”, altri che senza il sostegno di questa figura si sentono persi. Spesso gli atleti mi parlano dei loro problemi con i figli o mogli. La giusta misura è che il mental coach deve allenare una competenza utile per la performance. Per l’aspetto fisico c’è il preparatore atletico, per la preparazione mentale c’è il mental coach».
Se una persona volesse intraprendere questo tipo di attività, come può fare e che passi deve muovere?
«Io ho avuto la fortuna di formarmi con uno dei più grandi coach che abbiamo in Italia: Gianpaolo Montali. La pallavolo, probabilmente per la tipologia di sport, ci dona eccellenze in termini di coaching: oltre al citato Montali pensiamo a Velasco o a Mauro Berruto. Sicuramente è un lavoro fatto di passione che necessita di skills come l’ascolto, leadership, teambuiding. Esistono corsi formativi che sviluppano queste competenze. Esistono filosofie di mental coaching utilizzando strumenti come la PNL (Programmazione Neuro-Linguistica), basi di psicologia quantistica, chi lavora sulle emozioni. Al momento con il collega Salvatore Fusco, stiamo esplorando nuove leve per il mental coaching, un nuovo modo di affrontare la performance agonistica. Per me l’importante è esercitare questo ruolo in campo e no su una scrivania di un ufficio».