TENNIS – Di Davide Bencini
L’ansia. Brutta malattia. Hai cercato di guarire per anni. Quante volte ti sei detto “E’ solo una partita di tennis”… “Che vuoi che sia, mica giochi tu”… E anche stavolta vorresti essere davanti allo schermo a soffrire, oltre che sperare di vedere ‘IL’ tennis, quello verde, quello nel tempio. E sai che non potrai. L’hai già messo in conto da due giorni, quando sono finiti i quarti e hai cominciato a fartene una ragione, in un modo o nell’altro.
C’è un treno da prendere, per un viaggio che porterà via mezzo pomeriggio: quello sbagliato, chiaramente. E cominci a farti mille congetture e a parlare con te stesso come un perseguitato, tentando di convincerti dei lati positivi della cosa: ti dici “vabbeh, almeno se va male non l’ho vista, via…” Oppure ti accontenterai degli highlights la sera, e mentre il tuo cervello formula la frase sai già che ti sbatterai la bottiglia di tè comprata al chioschino alla stazione là dove non batte il sole.
Chatti con gli amici e li preghi di tenerti informato, senza sapere che vedere i loro commenti sarà peggio di una tortura, nel tentativo di interpretarli come le parafrasi su Dante alle superiori. Ci sono altri come te, impediti da lavoro, lezioni di pianoforte, code in autostrada. La consolazione della cosa è di breve durata, ti senti solo sfigato tra gli sfigati. Niente di più.
Il treno parte. La partita inizia. Fai a tempo a vedere sul livescore, unico tuo fidato e imparziale compagno, uno scarno 1-0, che un crudele messaggio ti annuncia che hai raggiunto il limite del download dati e che dovrai accontentarti di una velocità simile a quella del modem a 56K che avevi nel ’95, cercando contesti astrali di improvvise zone di copertura 3G connesse a app che funzionino invece di rimandarti a una triste pagina internet che dice che “la pagina non è visualizzabile” perché durante il caricamento da criceto paraplegico sulla ruota arrugginita la zona 3G è diventata un mero e velato ricordo.
Ti appare un 4-3. Tutto regolare, si segue il servizio, bene così, almeno è lottata. Chiudi e fai pensieri del tipo “Almeno ora si può forzare per un break” e congetture sul punteggio che vedrai al prossimo controllo. Ti immagini palle break sciupate, punti inimmaginabili fatti di lob, colpi fra le gambe in tuffo in recupero, smash a due mani, volee di manico sul paletto che tornano in campo e altre cose mai esistite.
Nel frattempo, appena ricompare un minimo di connessione, arriva il controllore. Maledetto, ma proprio ora? Nascondi un insulto sotto un finto sorriso, smascherato dalle mani sudate che tremano ansiose. Se ne va e torni alla tua passione, vedendo improvvisamente un 7-5 1-0 che ti gonfia di euforia solo per un attimo, perché la strada è interminabile, almeno quanto le zone di steppa desolata e tundra attraverso le quali il treno passa senza un barlume di segnale. Nemmeno ci trovassimo nella Terra di Mezzo… Cerchi di non pensare, ti trovi a guardare il cellulare ogni due minuti per vedere se per caso quelle stanghette ti ricatapultano nell’era moderna. E intanto immagini punteggi più disparati, cominci a pensare anche che nel frattempo abbiano cambiato le regole e che adesso i set finiscano a 17. Un attimo di agitazione e vedi un 3-3 nel quale non è ancora arrivata una palla break per l’avversario, ma hai paura che proprio il game successivo possa essere quello sbagliato. “Perché ho guardato?!?”
Poi di nuovo il buco nero. Intorno a te la gente vive ignara questa tua sofferenza. Speri in un 4-3 regolare e non ti accorgi che è passato un quarto d’ora. Vivi di momenti fatti in dejavou per non spezzare la routine osservata finora, perché “Dio bono porta bene!” Accendi la app e mentre aggiorna il risultato copri il livescore con la mano per vederlo un po’ alla volta…
7-5 7-5 2-1… Dì la verità! Nemmeno nei sogni migliori ci avresti sperato! E senza break subiti… Ma non si dice nulla, mai pronunciare le ultime parole famose…
Altro Triangolo delle Bermuda. Il segnale torna sul 3-3. Stessi magoni… “non un break ora, ti prego…”
“Chi preghi?” Ti chiede il tuo cervello. “Sta zitto e non portare sfiga” rispondi tu. Passa uno con lo sguardo torvo nel vagone vestito di nero. Lo vedi già come lo jettatore della situazione. Intanto a un minimo segnale compare un 5-4 che ti riempie di speranza… e 0-15, dopo di che il cellulare muore mentre gente su facebook parla di una delle partite più belle degli ultimi anni. Infamia. Orrore. Gramo raccapriccio. Terribile presagio di morte. Il tutto perché l’ansia ti ha fatto dimenticare di mettere in carica il fottuto cellulare.
E comincia l’ennesima attesa. Speri che faccia in fretta a riaccendersi. Che vedrai quella maledetta freccina nel livescore che segnerà una vittoria che forse sotto sotto non speravi, figuriamoci per 3 set a zero. Le tue dita si incrociano in modi assurdi, sei diventato esperto di joga autodidatta e contorsionista in meno di due ore e cerchi di non far vedere in quanti posti ti tocchi facendo appello a tutta la scaramanzia che conosci.
Poi torna internet. Non sai se ringraziare Allah o pregarlo.
E’ finita! Ti trovi a esultare come uno scemo col pugno sotto il sedile, mentre uno accanto russa e una signora con gli occhiali ti prende per pazzo. Ti senti un po’ idiota (ma felice di esserlo) e Dio al tempo stesso, anche se non hai visto un punto, più forte di tutti proprio perché hai sofferto di più, dovendo accontentarti di quello che passava il convento. Ma proprio perché il cammino è stato arduo, il risultato ha un sapore ancora più dolce, anche se contornato dall’umidiccio delle mani sudate.
Le guardi, sussurri “che schifo!” e mandi perfino maledizioni nel rimuginare ingrato “Chiaramente proprio oggi doveva fare la partita perfetta?!?”.
E il viaggio prosegue nel desiderio convulso del primo momento in cui metterai le mani su degli highlights…
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