di Salvatore Sodano C’era un ragazzo che come me… amava i Beatles il Rock&Roll… e il tennis? Forse, ma scavando nel fotocatalogo dei vip, a disposizione nella banca dati, di Morandi tennista non c’è traccia. Allora? Cosa c’entra Morandi con il tennis, a parte le circostanze che spesso lo hanno visto esibirsi negli stadi del […]
TENNIS – DA WIMBLEDON, RICCARDO NUZIALE – Agnieszka Radwanska centra la terza semifinale in quattro anni nel suo Slam preferito: 76 36 63 a Madison Keys. Ma questa ha un sapore del tutto speciale, di rinascita. O di ancora vita.
A un certo punto, soprattutto dal terzo set, il campo 1 è stato colpito da grandine programmata per uccidere.
Si stava vedendo una Lindsay Davenport di carnagione scura, ventenne, tirare vincenti sulla riga, odiare la pallina con una potenza e precisione da ricordare appunto la Giunone originale. Era Madison Keys che, riportatasi in parità vincendo il secondo set, a un certo punto sembrava padrona del campo e dell’esito della partita.
Ma la giovane predestinata a una carriera ricca di grandi successi non è riuscita a cancellare il nome della sua guida, Lindsay Davenport appunto, da una delle tante maledizioni che stanno affliggendo gli Stati Uniti tennistici: da 10 anni infatti, dalla Davenport 2005, nessuna giocatrice americana che non faccia Williams di cognome è stata più capace di raggiungere le semifinali a Wimbledon. Oggi tre giocatrici di passaporto USA hanno giocato e l’unica a passare è stata…lo sapete, lo sapete.
In tutta questa depressione a stelle e strisce, però, risboccia un fiore che stava per appassire. Sul 2015 di Agnieszka Radwanska tanto è stato scritto, tante lapidi sono state conficcate. Tanto che questa semifinale fa dimenticare che per la polacca è la terza nelle ultime quattro edizioni dei Championships. Il suo declino, l’uscita dalla top 10 (ora è 13), è passato forse con troppa frettolosità per il cammino ovvio di una giocatrice dalla tecnica sopraffina ma dal tennis troppo elaborato e fragile per poter lasciare davvero il segno. Nel 2012 era la novità, nel 2013 la conferma pronta a incassare (ma che non incassò); ora è vista generalmente come il talento che non ce l’ha fatta.
Una semifinale arrivata a sorpresa anche per lei (“Ad essere onesta, non me l’aspettavo. Sapevo che l’erba è molto meglio per me, ma dopo quel match a Parigi (primo turno contro la tedesca Beck, ndr), di certo non mi aspettavo la semifinale qui”), ma che conferma il feeling con superficie e torneo.
Dopo mesi di abulia, di confusione estrema che esplodeva nelle prestazioni in campo, che ha ucciso anzitempo la collaborazione piena di fascino con Martina Navratilova (“Penso sia solo arrivata nel momento sbagliato”, ha confessato Aga oggi), la polacca sembra aver ritrovato, almeno in parte, quella tranquillità e pace di cui necessità il suo gioco tanto elegante quanto lieve.
Oggi contro il timing perfetto della violentissima Keys ha stupito la facilità con qui la Radwanska sia rimasta lucida e sicura di sé, tanto da perdere solo due volte il servizio in tutto il match (nel primo game dell’incontro e nell’ottavo del secondo set), non concedendo alcuna palla break alla Keys nel terzo set. Nei due tornei di preparazione, Nottingham ed Eastbourne, aveva perso con un feroce 0-6 il set decisivo, mentre qui non si è minimamente scomposta, né affranta, continuando a tessere le sue proverbiali geometrie fatte con compassi d’aria.
In semifinale dovrà di nuovo mettersi l’elmetto, contro Garbine Muguruza, che l’ha battuta nelle ultime due occasioni (sono 2-2 in generale), ma la risposta che Aga ha dato in conferenza stampa è l’ennesimo segnale di una serenità ritrovata, di una voglia agonistica che non la fa indietreggiare davanti a nessuna: “Se è lei la favorita? Mah, non so. Penso che le possibilità siano 50 e 50. Di sicuro sta giocando un ottimo tennis ora, non abbiamo mai giocato sull’erba”.
Probabilmente il pubblico tiferà per la novità, come oggi ha fatto a favore della Keys, ma la 26enne Radwanska ha tutta l’aria di voler partorire una nuova, giovanissima, splendente Radwanska. Forse, per una volta, l’intento è ancor più importante del risultato.