La classe di Federer e la forza di Djokovic

TENNIS – WIMBLEDON – Da Londra DANIELE AZZOLINI – Sarà compito di Boris Becker scegliere le parole giuste per spiegare a Djokovic come Federer abbia battuto Murray. Forse si limiterà a un decalogo tecnico, certo utilissimo. Oppure andrà oltre, e magari racconterà a Nole di quel senso d’ineluttabilità che ha segnato la prova di Andy, alle prese con un genio nella giornata in cui mille inusitate formule tennistiche ruscellavano dalla sua racchetta.

Gli dirà, con parole tecnicamente appropriate, quali e quanti sforzi abbia fatto lo scozzese per mantenere vivo un match che l’altro dipingeva con una sequenza di colpi pennellati, seguiti da terrificanti esplosioni di servizio (20 ace). E gli racconterà di aver visto Federer impostare il primo break del suo match con un passante di rovescio arpionato dietro la linea delle spalle, e l’ultimo, quello che ha firmato la sua vittoria, con un altro rovescio in corsa vergato di solo polso, impossibile da capire prima ancora che eseguire.

Forse Boris qualcosa aveva intuito, forse se lo sentiva che non sarebbe stata una giornata come le altre, ma una di quelle che santificano la bellezza di questo sport. I campioni hanno un senso in più dei cinque che condividono con noi. E non è un caso che il vecchio giardiniere abbia prima seguito in tuta il suo allievo Djokovic, poi sia tornato sul Centre Court in giacca e cravatta. Noblesse oblige… Un Federer così meritava il vestito migliore fra quelli portati a Londra.

Così, il vincitore di sette Wimbledon è ancora in finale. La decima. A 34 anni si è mostrato più forte, carico, motivato di Andy Murray, ventottenne all’apice della sua parabola fisica e tennistica. Non è stato un match facile, tutt’altro. Lo scozzese ha dato battaglia, ma l’ha persa colpo su colpo. L’ha capito presto anche il loggione storico di questo teatro tennistico, assiepato sugli scranni naturali della collinetta più famosa, un tempo chiamata Henman Hill, oggi intitolata allo stesso Murray. Lì, i tifosi che amano dare sfogo all’esultanza sui punti più belli, hanno accompagnato Murray finché è stato possibile, l’hanno ringraziato per il coraggio, e applaudito per alcune combinazioni di grande talento. Ma già alla fine del primo set avevano capito che avrebbe vinto Federer, il più inglese fra tutti i tennisti. E l’hanno scortato con la devozione che merita un re.

«Il tennis è più grande di un singolo tennista, ma sono felice di questo tifo che mi accompagna», dice Federer. Eppure, poco c’entra tanto giubilo con l’atto finale di questi Championships che di nuovo riunisce Roger e Novak. Il tennis è gioco d’incastri e quello fra i due è tra i più complessi. Con Gasquet, Djoko ha vinto senza entusiasmare, molto sbagliando, molto preoccupandosi per una spalla (la sinistra) che gli dà qualche tormento. Ma non avrebbe mai potuto perdere, perché nei momenti difficili sapeva che Gasquet avrebbe confezionato i punti anche per lui. Non è il Djokovic migliore, però. Non è quello d’inizio anno, che sembrava aspirare a una stagione senza sconfitte. E non è quello che ha tentato di conquistare Parigi, battuto solo da un Wawrinka fuori da ogni schema. Gioca di sponda, non affonda, abbozza qualche trama e si ritrae.

Federer rincorre il diciottesimo Slam. Avrà il pubblico dalla sua, e la classe, quella davvero infinita. Forse avrà anche la pioggia, prevista a scrosci per domani: campi umidi e veloci. «Se serve come ha fatto contro di me, sarà difficile batterlo anche per Nole», avvisa Murray. Ma Federer non può più avere l’età e la fisicità di Djokovic. E dopo quindici giorni, una finale Slam è la montagna più alta che vi sia.

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